numero 14
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26 luglio 2010
LO SGUARDO DELLE VITTIME
Ivo Lizzola - Ott. 2007


26 luglio 2010
 
Professore Associato di Pedagogia Sociale, Università degli Studi di Bergamo


È all’interno di una Terapia Intensiva d’eccellenza, in una clinica universitaria, prestigiosa, che ascolto parole impreviste: “credo che sia importante stare male, stare un po’ male per il paziente, per la vittima dell’incidente o dell’ictus; credo anche di gestire le situazioni e di decidere meglio se sento la sofferenza… e, certo, se la sopporto condividendola con gli altri dell’ équipe”. Non sono, dunque, le macchine che dettano le decisioni in quelle situazioni frequenti nelle quali le diagnosi stesse e le prognosi restano aperte, incerte. “Sentire le persone, sentire la famiglia è, a volte, un pezzo che mi manca”, e la dottoressa non intende per sentire il consultare, l’avvisare, l’informare. Vuol esprimere piuttosto un sentire dentro, un pensare e un agire in presenza, un applicare i protocolli con interventi “misurati” dal sentire la rete di relazioni e di storie delle vittime. Sentire e stare un po’ male nell’incertezza, pur con alte competenze e raffinate possibilità d’intervento sia sull’emergenza, sia su situazioni fortemente compromesse. Sapere e limite, speranza e responsabilità. Pudore, alfine: pietà .
La vulnerabilità – di chi è ferito nel corpo, di chi è scosso nei sentimenti e nelle relazioni, di chi porta saperi, tecniche e capacità raffinate – richiama a una sobrietà del fare, del conoscere, del sentire. Sobrietà nella quale si gioca il valore, il significato e la giustizia, in una parola l’umanità delle presenze, dei gesti, dell’incontro tra donne e uomini. Sentire l’altro: attenzione anzi discesa ai luoghi più segreti dell’essere.

Un poco sentiamo, a volte, nel fondo di noi stessi una sorta di “senso di colpa” senza che ci siano imputabili colpe, o responsabilità. E quasi chiederemmo perdono! Una cara amica, oncologa di fama internazionale, scriveva di “un curare che spesso è solo un agire senza speranza” a fianco di condannati, di vittime del male. Per la stessa condizione usiamo entrambi i termini, sostituibili, … E aggiungeva “Navigo a vista, in scienza e coscienza”: E questo “è un peso che aumenta sempre più, che mi cambia profondamente”. Curati e curanti si scoprono “dopo tanti anni compagni di viaggio, … insieme con zaini diversi. Anche nello sbilanciamento il carico è grave per entrambi”. Ed il ricordo di Milvia va al dialogo di un bellissimo film di anni fa, in cui alla domanda: “Qual è il primo dovere di un medico?” viene risposto: “Il primo dovere di un medico è chiedere perdono!” Milvia che così attentamente cura ogni incontro con ogni paziente, specie di quelli per i quali “non c’è più niente da fare” Come abitare l’evidenza della mia differenza, della mia radicale distanza, della mia esclusione dalla condizione della vittima? Irraggiungibile vittima, ed io nel confuso desiderio di farmi vittima presso le vittime, o nel movimento di estraniazione (o di dominio) del salvatore, del donatore. Nella possibilità e nella realtà di entrambi i movimenti, mentre sono portatore delle stesse competenze, delle stesse intenzionalità, della stessa compassione.
A volte lo sguardo sulla vittima sa già cosa cercare, a volte è ben definito. La scienza, la medicina, il diritto, le scienze umane vorrebbero prendersi carico delle vittime. A volte vorrebbero assumere il male, e “volere il bene”. Non bisogna pretendere di assumere e vincere il male, di volere il bene, richiama Simone Weil: non ci si può “appropriare” del bene né del tutto liberarsi e liberare del male.
Il male lo si può “patire” senza lasciargli l’ultima parola; e al bene si può cercare di non offrire troppa resistenza, di fargli spazio. È difficile fermare l’intenzionalità, o almeno frenarla, sospenderla: “l’originaria apertura della vita umana alle cure è patirle”, da qui apprendiamo a rispondere a un patire che ci tocca. Ciò rappresenta una via di iniziazione.
Lo sguardo della vittima svela l’impossibile assunzione del male. Il male è già, e ancora; è inguardabile: la vittima lo ha riconosciuto. Come enigma e come possibile. Non va cercata una “spiegazione”, né una “risposta” davanti all’enigma (come invece prova a fare Edipo): “vi si risponde di persona” restando là dove l’essere prima che oggetto di speculazione è patimento “nelle viscere” (las entrañas delle pagine di María Zambrano sulla pietà).
È una iniziazione in cui si ritrova e riprova di nuovo l’incompiutezza, l’umiltà, l’impotenza di donne e di uomini, certo capaci (anche in modo raffinato e attento) ma sempre ancora vulnerabili. I saperi, le tecniche, le terapie, le politiche, le didattiche, le cure si trovano a doversi declinare (e a declinare) come mezzi, come cammini di prossimità, come forme dell’approssimarsi perché, forse, si possa dare qualche nuovo inizio, qualche altra abitabilità del tempo, (delle relazioni, delle speranze).
Ciò si dà, allora, anche come riscatto degli inizi. Provare a “restare nel vivo” del tempo e dell’incontro con l’altro dopo la ferita, dopo il tradimento, comporta sofferenza. Chiede di tornare a sentire. E a sentirsi: umiliati, malati, negati, feriti. Dopo che non si è stati ospitati nel sentire, dopo essere stati ridotti a nulla, a cosa, a insignificanza.
Ci si interroga, ci si comincia ad interrogare in questi anni attorno al destino del sentire. Sono evidenti i segni di una atrofia del sentire, di una incapacità di “affetti” che alimentino legami tra donne e uomini, di un appiattimento del sentimento. Atrofia che conduce all’insignificanza (come scrive l’ultimo Castoriadis), a quella psicopatia che non fa più distinguere la gravità di un’azione, il valore di un gesto, di una parola, o la sua irrilevanza.
E molti comportamenti ci dicono che l’atrofia del sentire è ben conciliabile con un’intelligenza lucida e raffinata, cinica e “banale”. Di donne e uomini senza risonanza, la cui parola non suona, non ha sonorità né ritmo, nei luoghi della vita comune, della convivenza sociale, come delle prossimità più intime: è parola “perduta”, che “turbina priva di vita… priva di nido”.
Coltivare un sentire attento è avventura di senso e di responsabilità, e anche di godimento estetico. È coltivare la facoltà di attenzione: quella che permette di farsi cogliere dai fremiti e dai gemiti della vita. Occorre un ritrarsi, un fare spazio: un porsi in rispetto, e rispetto a. Allora, può nascere un’esperienza di conoscenza che, secondo l’indicazione preziosa di Romano Guardini, “inizia col fatto che l’uomo si ritrae”. Esperienza di conoscenza non è solo riconoscere il valore di qualcosa (di un’opera) ma contemplare, non è solo considerare la bassezza di un comportamento ma indignarsi, non è solo esprimere apprezzamento per una donna o un uomo ma amare. Contemplare, indignarsi, amare chiedono di fare spazio, di ospitare, di tenere rispetto, di prendere distanza. Di “sentire l’altro”.
Accostando le esperienze della fragilità ferita e della cura che sfiora l’impotenza“ bisogna che ci lasciamo cambiare dalla scoperta dell’inesauribile senso dell’esperienza”.
Le narrazioni che si provano dopo che donne e uomini sono stati resi vittime a volte “portano” segni di una prospettiva culturale e scientifica – che è anche etica – nella quale si assume l’esperienza umana come processo di “costruzione di significati” . Accettando i limiti di un procedere esplorativo e in ascolto, di un pensiero che mentre si sviluppa come un’indagine attiva su racconti d’esperienza e di vissuto, si espone a semplificazioni, alla contraddizione, all’ambivalenza. E chiede quindi, di nuovo, di reinterpretare e ridescrivere. Di sospendersi nel rispetto. Cercando una sobria capacità di cogliere ma anche di serbare, di non pretendere di fare troppa luce sulla “verità nel varco dell’esistenza“.
Occorre tenere in conto, mentre si attiva una prossimità, si prova un ascolto, o si muove un’interpretazione, che sempre si invadono mondi che avevano un loro ordine, ora devastato, e che sempre si sentirà scosso e un poco invaso il proprio mondo (fatto di ipotesi, di riferimenti culturali e scientifici, di pratiche di cura) ed il suo ordine, i suoi criteri ordinatori.
È proprio questo movimento di irruzione, di invasione che caratterizza l’ingresso degli operatori sanitari e assistenziali e dei loro protocolli, nella storia di una donna, di un uomo, di una rete vitale, di una persona seriamente malata, o profondamente ferita? E non è un’invasione nel mondo ordinato di un servizio di cura e assistenza, nei suoi paradigmi, quella che mettono in atto, con la forza sempre anche un poco cieca, le storie e i sentimenti, le reattività e le paralisi delle vittime?
D’altra parte incontrare l’esperienza umana nelle situazioni limite vuol dire anche (superata l’immediatezza e affinato l’ascolto) trovarsi in un luogo altro del pensiero e della parola, nel quale sempre la seconda tradisce un poco il primo, e questo tradisce un poco la realtà vissuta dell’esperienza. Un luogo dove incontri e pratiche di saperi esperti devono provare a riconquistare una prossimità alla vita del pensiero e della tecnica.
Nel nostro tempo viviamo una sorta di ritorno alla durezza: alla durezza del cuore che fa spazio a rancori e risentimenti, al disprezzo e alla freddezza cinica; alla durezza del pensiero che diventa ragione strumentale, potere e appropriazione, semplificazione o gioco retorico; alla durezza della memoria che dà forma ai messianismi “al rovescio” dei fondamentalismi; alla durezza del bisogno e dell’interesse, senza desiderio e senza sogno.
Ci troviamo di fronte alla durezza dei confini culturali, di identità chiuse. Durezza anche dell’agire specialistico, a volte autoreferenziale e ottuso, come delle frontiere delle comunità scientifiche chiuse, come delle pratiche e delle ragioni “regionali”. Tutto questo si esprime in una inedita durezza dei giudizi. Ma non si può vivere di durezza: non si crea un legame nella durezza, né si stabilisce fiducia.


Note:
1- Lizzola I., (2007) “Soglie, fratture, prossimità- l’esperienza della cura nelle terapie intensive” in Bertolini G. Scelte sulla vita – L’esperienza della cura nei reparti di terapia intensiva, , Guerini, Milano, pp 95 ss
2 - Weil, S. (1985), L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano, pp 80 ss; cfr Zamboni, C., (1994), L’azione perfetta, Ed Centro Culturale V. Woolf, Roma
3 - Zambrano, M., (1997), “Per una storia della pietà” in Aut Aut, 279, Milano. La cultura e l’etica del progresso hanno condannato la pietà. “L’etica moderna ha preteso di sostituirla con diverse virtù e valori: la filantropia, la cooperazione, la giustizia. Oggi si chiede sempre in nome della giustizia e quando si concede qualcosa lo si fa ugualmente in suo nome. Ma sarà sufficiente? Potranno giustizia, cooperazione, ecc colmare questo vuoto sentimentale, animico, della Pietà e alimentare, come essa sa fare, la fiamma della creazione? Il cuore umano e le sue viscere,potranno essere soddisfatti semplicemente con quanto concede loro la giustizia? L’angoscia nella quale oggi ci dibattiamo potrà essere dissipata con rimedi nati dalla mente? Ragione e giustizia sono sorelle, vanno insieme: l’una è nella pratica ciò che l’altra è nella conoscenza. Ma il loro imperio assoluto suppone che l’uomo si sia convertito in un essere che ha bisogno di conoscere solo le cose visibili e tangibili, e che di quelle si alimenti. Ma se è vero che non si vive di solo pane, ragione e giustizia non bastano” pp 63-69
4 - Le Blanc G., “Penser la fragilité”, Esprit, 3-4, 2006, pp 249-263
5 - Boella, L., (2006), Sentire l’altro, Cortina, Milano; Magatti M. (2005), “Eccesso e crisi delle relazioni” in Botturi F., Vigna C., (a cura), Affetti e legami, Vita e Pensiero, Milano
6 - Zambrano, M., Il sogno creatore, B. Mondadori, Milano
7 - Buttarelli A., (2004) Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti, B. Mondadori, Milano, p 18; Zambrano M., (1996) Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano; Milano; vedi anche De Vecchi F. (a cura), (2001) Filosofia, ritratti, corrispondenze. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, María Zambrano, Tre lune, Mantova
8 - Come accompagnano a cogliere la fenomenologia e l’ermeneutica, le filosofie dialogiche e tematizzanti l’alterità, i contributi del pensiero della differenza
9 - Labate S., La verità buona, op cit, pp 10-11; Lévinas E., (1997) Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova; Mortari L., “Verso un’epistemologia femminile” in Studium Educationis, Genere e educazione, n 2, Cedam, Padova, 2003, pp 365-380; Ferretti G.(a cura), (1998) Ermeneutiche della finitezza, Istituti Editoriali Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma
10 - Vedi le riflessioni di Brugère F., Le Blanc G., Pirard V., Wornes F, Zaccaï-Reyners N. in “Les nuovelles figures du soin”, Esprit, 1, 2006 pp 77-156 ; vedi anche Le Blanc G., “L’invention de la normalité”, Esprit, 5, 2002, pp 145-164 ; “Penser la fragilité”, Esprit, 3-4, 2006, pp 249-263
 
 
 
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