numero 14
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26 luglio 2010
Emozioni e sensemaking in Terapia Intensiva
Di M.Francesca Sapuppo* e Diego Bongiorno*

Gruppo di lavoro*: Grazia Alia, Serafina Ardizzone, Diego Bongiorno, Cecilia Dolcemascolo, Salvina Matranga, M.Francesca Sapuppo, Salvatore Vasta
*A. I.CHANGE


26 luglio 2010
 



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Prenderemo spunto dal lavoro di Sara Albolino, Richard Cook “Medici di Terapia Intensiva: sensemaking, sicurezza e lavoro quotidiano” (riportato in questa stessa rubrica) per offrire ai Lettori  anche un nostro punto di vista ed un approfondimento. I risultati sono il frutto delle ricerche che abbiamo svolto negli anni passati (dal ’97) all’interno della Terapia Intensiva polivalente dove alcuni di noi lavorano o hanno lavorato e che sono state coordinate da Diego Bongiorno, psichiatra e psicoanalista, esperto nella conduzione di gruppi a funzione analitica.

Dalla nostra esperienza quotidiana di Medici Intensivisti sappiamo quanto sia importante in una realtà estremamente complessa e carica di incertezza, come la Terapia Intensiva, lavorare in collaborazione in modo coordinato e cooperativo per ottenere una organizzazione “la più sicura possibile”; contemporaneamente sappiamo però, quanto sia difficile poterla ottenere.

In questo risulta indispensabile il sensemaking, quale processo di costruzione di significato e senso “condiviso” tra gli individui del gruppo. Questo consente loro di comprendere  e condividere “insieme” questa  realtà così complessa ed incerta per poi potere agire successivamente in modo condiviso, organizzato, “sensato”.

Da qui la decisione di studiare questo processo perché sono proprio le cadute, i fallimenti del sensemaking “condiviso” che possono portare, come spesso osserviamo nelle nostre realtà ospedaliere, ad operare in modo “disorganizzato e senza senso”.

Per osservare questo processo è stato usato, come momento privilegiato di osservazione, il momento delle “consegne” tra i Medici al cambio del turno di lavoro, perché siamo partiti dall’ipotesi che questo non è solo un luogo di scambio di informazioni cliniche ma anche di emozioni. 

“Se nel mondo tutto accadesse razionalmente non accadrebbe nulla”

(Fëdor  Michailovic Dostoevskij)

Le nostre ricerche hanno evidenziato che, all’interno di organizzazioni ad alto impatto emotivo come le Terapie Intensive, è necessario, come prerequisito per costruire quel significato e senso “condiviso” nel gruppo di lavoro (utile per svolgere un lavoro “concordato”), un percorso che tenga conto della modulazione affettiva del gruppo.

Per arrivare a quel senso “condiviso” collettivo, è necessario costruire prima quella trama invisibile di fondo del “sentire” tra gli individui, quel senso comune che permette loro qualsiasi forma di  scambio e la crescita nella comunità. Per “sentire” ci si riferisce alla dimensione emotiva, luogo che consente agli individui prima di entrare in relazione umana, per poi successivamente rivolgersi al lavoro performativo (vedi “Riflessione sul senso comune” di D.Bongiorno).

Il perché della necessità di costruire  senso

La ricerca e la creazione di senso e significato, nella realtà che ci circonda, è insita nella natura umana; è necessario comprendere ciò che ci circonda per poterci vivere dentro. Nel nostro piccolo quotidiano (al pari di scienziati o filosofi su grandi temi) tutti ci poniamo delle domande e cerchiamo di dare spiegazioni alle situazioni esperite personalmente o attraverso il racconto.

La comprensione è un bisogno diffuso che necessita di un pensiero riflessivo consapevole o inconsapevole. Questo è indispensabile per potere analizzare, ordinare, collegare tra di loro e relazionare con il passato e con noi stessi gli eventi osservati o vissuti. “Organizzare la realtà” serve per potere costruire interpretazioni plausibili e per potere eventualmente immaginare un futuro dove sarà inserita la nostra azione, declinata nel cosa fare, come e quando fare, ma soprattutto perché fare. E’ piena infatti, la nostra vita quotidiana, di “non capisco perché sia successo… penso che sia successo per questo… in base alle  analisi faremo questo…. queste cose prima non accadevano… in base alla mia esperienza non dovrebbe succedere… questo non ha senso… ma in che senso dici?...”

Questo processo ha una forte componente soggettiva, locale, contestualizzata, ma che ha anche l’esigenza di oggettivarsi in un momento sociale attraverso il confronto e la condivisione con gli altri o attraverso la ricerca di regole e leggi comuni, passando così dalla sfera della costruzione di significato e senso individuale a quella collettiva.

La costruzione di senso nel processo diagnostico

Questo processo di costruzione di senso è anche molto evidente nel nostro lavoro quotidiano di Medici quando attuiamo il processo diagnostico: cerchiamo mentalmente di analizzare, riordinare, collegare i dati clinici e strumentali  ottenuti dalla ascoltazione e/o dalla osservazione del paziente per poi interpretarli ed inserirli secondo un “senso logico/plausibile” in una diagnosi. Anche i nostri modi di dire rispecchiano questa necessità di comprensione attraverso la  costruzione di un senso che armonizzi e sintetizzi tutte le informazioni che riceviamo dalla realtà-paziente “bisogna inquadrare ancora il paziente… questo non mi quadra… quadro clinico e strumentale… ma cosa c’entra questo sintomo con questa diagnosi….”  (vedi nota a piè pagina**)

A questo poi seguono le nostre scelte e le nostre azioni o il non  agire, perché come abbiamo detto, le nostre azioni non sono legate solo al cosa fare e a come e quando fare, secondo i riferimenti scientifici ed esperiti, ma soprattutto al perché fare.  Basti pensare come esempio limite alle attualissime problematiche legate all’accanimento o al non accanimento terapeutico nelle malattie incurabili.

Questo così descritto come un processo sequenziale in realtà è un processo continuo, circolare, a va e vieni, dove i momenti  non sono schematicamente divisi ma possono sovrapporsi, e soprattutto è un processo che ritorna su se stesso per inserire nuovi dati (ad esempio gli esami effettuati) o perché sono sopravvenuti cambiamenti clinici spontanei o terapeutici, e quindi vi è una continua rivisitazione e ricostruzione di significati e senso.

Come abbiamo detto la costruzione di senso ha una componente fortemente soggettiva, ed in Medicina ciò è ampiamente evidente: dagli stessi dati a disposizione, possono essere generate inferenze ed interpretazione differenti (ad esempio due Medici possono porre due diagnosi differenti su uno stesso caso). E’ un processo molto contestualizzato in base alle risorse culturali e strumentali diagnostiche/terapeutiche disponibili in quel momento ma soprattutto quello che spesso è sottaciuto dipende anche dal nostro assetto emotivo,  essendo noi persone di scienza inseriti in esseri umani.

Il ruolo delle emozioni nei processi cura

Le emozioni, consapevoli o inconsapevoli hanno un ruolo determinante sull’attività diagnostica/decisionale/operativa, facilitandola o ostacolandola, come ben sappiamo oltre che dalle più recenti ricerche delle Neuroscienze, anche dalla nostra esperienza quotidiana. “Noi in difficoltà (sopravvalutazione o sottovalutazione) rispetto alla cura di familiari ed amici, noi che nonostante i protocolli possiamo eccedere sulla profilassi/terapia antibiotica per paura,  noi in difficoltà nell’eseguire una procedura abituale quando vi è un eccesso di ansia o al contrario noi che l’ansia fa girare più velocemente, noi che l’ansia ci fa stare più attenti”.

In Terapia Intensiva poi lo sforzo nella costruzione di senso da parte del Medico di guardia è reso ancora più enorme perché spesso è solo, svolge più lavori contemporaneamente, deve affrontare l’emergenze che si presentano, deve coordinare, il tutto in una estrema contrazione del tempo operativo e soprattutto di  riflessione.

Inoltre non è da trascurare uno degli elementi più importanti: la responsabilità di cui il Rianimatore si carica per il tipo di pazienti che cura, pazienti non interagenti o perché in coma o perché sedati o perché troppo critici. Questo comporta come nella relazione madre/figlio, soprattutto quando vi è stata una intensa relazione di cura e di accudimento con il paziente, anche una supposizione di sintomi che il paziente non può riferire (“avrà dolore… ha i brividi, avrà freddo… mi pare che si stia svegliando… mi pare che mi senta…”) e su questi significati attribuiti  costruirà un senso, per poi istaurare un iter diagnostico/terapeutico, legato non ad una osservazione verificabile attraverso strumentazione, ma ad un sentire “l’altro” ed esservi in risonanza.

La complessità del lavoro di Terapia Intensiva

Il lavoro di Terapia Intensiva (soprattutto nelle Unità Operative dei grandi Ospedali) è caratterizzato proprio dalla sua intensività e dalla incertezza, presenta una forte componente speculativa ma una altrettanto forte componente operativa/manuale.

E’ un lavoro che ha quasi gli stessi ritmi durante tutte le ventiquattro ore dato che molte attività non possono essere rinviate al giorno successivo. Inoltre, attraverso la sorveglianza clinica e strumentale, vi è una raccolta continua di informazioni e dati dai pazienti, che ne indicano lo stato di base, i cambiamenti e la stazionarietà. Come si dice nel nostro gergo: “non si finisce mai”.

Il lavoro ha un ritmo veloce ma continuamente frammentato dalla continua affluenza di dati, dalle decisioni da prendere e dalle azioni da fare su più pazienti contemporaneamente, interrotto dagli spostamenti di pazienti da e per la sala operatoria  o per le sale-diagnostica, dai lavori burocratici da svolgere, dai contatti telefonici con altre Unità Operative, dalla presenza di Medici consulenti, dalla presenza dei familiari e il dover dare loro notizie cliniche sui congiunti, dall’arrivo di un nuovo paziente, dal dovere insegnare ai nuovi Colleghi le modalità di lavoro ed altro ancora. Spesso le attività sono differenti e vengono svolte in parallelo su più fronti e linee operative contemporaneamente. Tanto da dire alcune volte adirati in risposta a questo senso di pressione: “basta!!! Una cosa la volta, non capisco più niente!”.

A questi ritmi incalzanti si aggiunge un continuo stato di sottofondo di allerta (più o meno esplicita, più o meno carica di ansia, secondo i momenti) e una sensazione di fondo di instabilità e di precarietà dell’equilibrio del momento  e di incertezza perché in queste reparti è alta la possibilità di eventi improvvisi (ad esempio un arresto cardiaco, un’emorragia massiva) e cambiamenti clinici repentini (ad esempio dalla stato di veglia al coma, dal respiro spontaneo all’insufficienza respiratoria e all’apnea) con momenti convulsi e caotici di estrema emergenza anche se ci si prepara mentalmente e operativamente a queste evenienze.

Lavorare per l’uomo

A tutta questa estrema complessità, che già sarebbe di per sé bastevole, si aggiunge la peculiarità dell’oggetto del nostro lavoro: l’uomo-paziente e la sua cura, i suoi familiari e la loro sofferenza.

Questo aspetto del nostro lavoro pur essendo stato sempre considerato, lo è stato quasi esclusivamente in modo unidirezionale, dall’Operatore verso il paziente o i familiari. Ci si richiede di avere uno “sguardo emozionato” verso chi curiamo per comprendere e capire la sua ansia e il suo dolore, ci si chiede di avvicinarci fino ad immedesimarci, ma poco si parla dell’impatto emotivo che questa estrema vicinanza al dolore e alla morte procura sugli Operatori di Terapia Intensiva. Poco si parla di quanti sentimenti ed emozioni, riverberano dalla cura di pazienti che si tenta di strappare alla morte, o di quanto sia difficile a volte reperire un senso nel trattare pazienti incurabili a cui si pensa di allungare il tempo di morte, le sofferenze, e non la vita. Non si dice di quanto sia difficile vedere morire persone troppo giovani per morire e di quante volte nel guardarli con paura pensi ad un tuo caro (“potrebbe essere mio figlio, ma come si resiste ad un  dolore simile!”) o come sia difficile contenere l’ansia dei familiari e tollerare la loro sofferenza. Nulla si dice di quanto ci si senta responsabili rispetto a questi pazienti tanto critici e in tutto dipendenti dalle macchine e dal nostro operato, di quanto l’Intensivista sia sempre attanagliato da sensi di colpa anche quando la complicanza o la morte sopraggiungono indipendentemente dalle nostre cure.

Poco evidenza si dà, in definitiva, a quanto lavoro viene fatto continuamente dagli Operatori per gestire le emozioni oltre la complessità clinica e organizzativa del “Sistema Terapia Intensiva”, per fare in modo che le emozioni non ci soverchino e ci paralizzino o ci facciano esplodere in modo incontrollato, per riuscire a mantenere quel senso costruito con tanta fatica.

La costruzione di “senso condiviso” nel gruppo di lavoro

La gestione della complessità del nostro lavoro impone la costruzione intersoggettiva e collettiva di significati e senso da parte del gruppo di lavoro, perché, come abbiamo detto, il lavoro “non finisce mai”, non si esaurisce alla fine del proprio turno per poi essere ripreso successivamente dallo stesso Medico, ma viene continuato da chi prosegue nei turni successivi. E’ imperativo quindi che vi sia una condivisione di conoscenze, di organizzazione/coordinamento, di linguaggio, di valori, di obbiettivi…  per fare in modo che il lavoro intrapreso prosegua oltre se stessi.

La dimensione collettiva è necessaria per far fronte all’ instabilità ed all’ incertezza del nostro lavoro, la preparazione a ciò che può accadere, o all’emergenza; non dipende solo dal singolo ma da una collettività che se ne fa carico. E’ il collega, o i colleghi, che ti precedono nel turno che ti possono allertare sulla possibilità che accada una difficile evenienza; sono tutti gli individui di un gruppo che si predispongono attraverso l’organizzazione di se stessi, dei mezzi, dei luoghi… ad affrontare una eventuale emergenza.

E’ necessario mettere “in comune” le notizie, le modifiche sui pazienti, esplicitare i significati attribuiti durante il proprio turno alle nostre osservazioni, e il senso che se ne è costruito, per dare una traccia a chi prosegue, per facilitare i compiti che sono tanti.

Questo avviene in tutti quei momenti in cui è possibile avere e costruire un luogo di scambio, uno spazio di narrazione (codificato, formale, informale, consapevole, inconsapevole…) dove vengono trasmessi contenuti clinici e organizzativi con un processo di chiarificazione e reinterpretazione, dove si esercita la memoria e si progetta il futuro, dove si mette in discussione l’operato e le idee, dove in definitiva nel passare da noi come singoli individui, a noi individui inseriti in un gruppo di lavoro, si applica quel pensiero riflessivo “in comune” alla base della costruzione del senso collettivo. Questo senso “in comune” può poi essere continuamente “evocato” dall’Operatore frontale come una risorsa operativa, adattandolo al contesto variante della Terapia Intensiva, dove costruisce il suo senso “della situazione del momento”.

Pensate ad esempio a voi stessi (intensivisti e nurse) in tutti quei momenti come la riunione mattutina, le consegne a cambio turno, i discorsi durante il turno di  guardia, in cui  raccontate il caso clinico, cosa è accaduto e come avete interpretato ciò che è successo e cosa avete fatto, e poi il collega aggiunge le sue ipotesi interpretative, anche ripensando a ciò che è successo durante il suo turno, e allora da questa riflessione “in comune” vengono dati nuovi significati agli eventi, ricostruito un nuovo senso e vengono progettate nuove azioni cliniche/organizzative.

Il ruolo della dimensione emotiva nel mettere “in comune”

Fare tutto questo non è certo semplice e vi si arriva solo attraverso un percorso in cui prima ancora di costruire un senso al di fuori del gruppo (clinico, organizzativo…), il gruppo dà un senso a se stesso come comunità sociale.

Mettere “in comune” non è qualcosa che avviene automaticamente, dopo avere costruito il nostro senso individuale; per poterlo comunicare alla collettività è necessario che il gruppo a cui si appartiene, lo riconosca come senso possibile, condivisibile, altrimenti persiste incredulità rispetto alle nostre osservazioni (può essere una tua impressione… ).

Infatti, il mettere “in comune”, si sviluppa nel corso dei processi di interazione sociale, presuppone un percorso di costruzione fiduciaria del gruppo di lavoro che tenga conto degli stati emotivi dei singoli, portatori delle proprie storie di vita e professionali, e dei singoli inseriti nel gruppo che deve costruire una storia che li contenga.

Le emozioni sono parte integrante della nostra vita, non possono essere escluse. Noi Operatori entriamo nel Sistema Terapia Intensiva con la nostra emozionalità, con le emozioni che sono dentro di noi e ce ne carichiamo di altre durante il nostro lavoro.

Non esiste un processo sociale, “come mettere in comune”- che possa essere scisso dal processo emozionale; anzi sono proprio le emozioni il vero collante di qualsiasi organizzazione perché sono “i sentimenti che disegnano i muri e i corridoi invisibili che dividono o uniscono le persone” che poi dovrebbero cooperare (S.Gherardi).

Pensate, riprendendo ad esempio quei momenti di scambio tipici della realtà quotidiana di Terapia Intensiva (riunione mattutina, giro visita, consegne, discorsi…), quanto sia importante, per potere mettere “in comune”, un clima favorevole.

Un clima a bassa tensione permette ai partecipanti di esporre la propria interpretazione della realtà operativa vissuta ed il senso datole, e proporre azioni; o di apprendere -se in formazione- perché le idee non vengona denigrate o rapidamente e superficialmente cassate, ma discusse per costruire quel senso collettivo necessario per condividere azioni “sensate”.

La presenza viceversa di tensione (ad esempio la presenza di figure apicali autoritarie, ipercritiche o svalutanti) non favorisce di certo quel pensiero riflessivo retrospettivo, di revisione indispensabile per la costruzione di senso condiviso, anzi essa induce ad un rifiuto sia della revisione che della condivisione o ad una “finta” condivisione. E gli Operatori potrebbero arrivare a non agire durante i turni guardia secondo la propria costruzione di senso in base alla “situazione del momento” (contestualizzazione del senso condiviso “evocato”), ma “senza senso” per evitare il rimprovero e le critiche.

In un clima disponibile è possibile accettare i significati e il senso costruito dall’altro senza soffrire troppo nel dovere abbandonare il proprio, requisito indispensabile per arrivare ad una scelta condivisa e per non paralizzare l’azione; perché non si senta prevaricazione, ma si avverta la migliore valenza di costruzione dell’altro e la migliore possibilità di riuscita.

In un clima solidale non vengono esaltate le distrazioni, gli errori o ciò che si è trascurato o non si è terminato, rendendo così la colpa un pesante macigno; ma si comprende il Collega perché si sa che la Terapia Intensiva è una realtà dove alcune volte l’attenzione viene “acchiappata” da un problema più grave, riducendo necessariamente l’attenzione sugli altri, o ancora si focalizza l’attenzione su elementi sbagliati. Si comprende così, in fondo, il deficit di costruzione di senso che può essere accaduto, e si può avviare la riflessione e la rivisitazione, per evitare errori successivi.

Questi alcuni dei tanti esempi del quotidiano che permettono di far comprendere quanto sia importante per la costruzione di senso condiviso, quella dimensione emotiva di cui abbiamo parlato all’inizio, luogo dove noi non “vediamo” ad esempio il clima con le sue qualità, ma lo percepiamo.

Osservandoci ancora in quei momenti in cui ci mettiamo “in comune”, potremo osservare come noi Medici nel riferire le notizie e le condizioni cliniche dei pazienti, non limitiamo la nostra comunicazione ai “fatti clinicamente utili”,  ma “espandiamo” la nostra comunicazione nella narrazione di “fatti apparentemente insignificanti e non necessari”(è madre di due bambini…, è successo mentre stava giocando col suo aquilone…, fisicamente assomiglia a mio padre…, si è laureato proprio ieri…, è il giorno del suo compleanno..., i genitori sono distrutti…).

La comprensione

I contenuti non sono scissi dalle emozioni che generano ed il Rianimatore esprime così il suo vissuto con il malato, con i familiari, con se stesso e con la realtà che lo circonda, perché si soffre troppo a contatto con la sofferenza dell’altro e, come succede nella vita di tutti i giorni, lo si racconta. E questa narrazione è tanto più intensa e lunga, quanto più il Medico ha costruito dentro di sé un tempo ed uno spazio interno nei confronti del paziente, del familiare e quanto più alta soprattutto è la capacità di ascolto dell’altro Medico che riceve “consegne”.

Questa narrazione spesso può proseguire oltre il singolo momento, si riprende durante il lavoro, alle pause caffè, ed è possibile farla solo se è stata accettata, all’interno del gruppo, la possibilità di espressione e di condivisione e di elaborazione di queste esperienze dolorose.

Il poter recuperare anche attraverso l’altro che ti ascolta e ti “sente”, è alla base del più importante modo di costruire senso comune, la comprensione. La comprensione vicendevole permette ad un gruppo ad alta complessità e così carico di emozionalità, di muoversi in modo solidale e fiduciario, permette di sentirsi vicini e parte di quel gruppo che sente le tue stesse esperienze, e che successivamente costruirà un senso collettivo, condiviso nella operatività.

In conclusione, è la dimensione emotiva, quale luogo preriflessivo, che permette l’intersoggettività e consente l’interdipendenza, tra i membri di quel gruppo che potranno poi lavorare in modo funzionalmente attivo e simpatetico.

____________________________________________________________________

Nota**La costruzione di senso nel processo diagnostico. Basti ricordare quando si presenta a noi un paziente: ne ascoltiamo la storia anamnestica passata, i sintomi attuali, osserviamo e ricerchiamo i segni di patologia e immediatamente mentalmente li analizziamo, li riordiniamo e ne cerchiamo i possibili collegamenti tra di loro e con la storia patologica passata. Successivamente li riferiamo e li confrontiamo con il nostro bagaglio culturale (la classificazione tipologica delle malattie) e con la nostra esperienza (i casi simili osservati), includendo o eliminando;  e da qui scaturiscono inferenze, deduzioni, interpretazioni, alla ricerca di un senso logico plausibile per potere incorniciare l’osservazione in una diagnosi possibile o differenziale (definizione significativa di ciò che abbiamo osservato).

In questo processo c’è una ricostruzione immaginativa della malattia in un processo di illazione, risalendo al passato (cosa c’è stato prima della nostra osservazione) cosa ci dovrebbe essere al presente (ricerca dei segni clinici e strumentali) e cosa potrebbe svilupparsi nel futuro con o senza terapia.

A questo seguono le scelte, secondo logica bayesiana, basate su cultura, opinioni, conoscenza tacita ed esperienza e poi le nostre azioni, come la prescrizione di terapia, intervento chirurgico e/o la richiesta esami clinici e strumentali alla ricerca di una conferma delle nostre supposizioni, o anche può seguire l’azione di non agire.


 
 
 
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