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26 luglio 2010
Psicosi in Terapia Intensiva ed autonomia del paziente:
Alcune riflessioni dall'interno

Traduzione dalla lingua inglese e riduzione dell’articolo:
MISAK C.; ICU Psychosis and Patient Autonomy: Some Thoughts from the Inside.
Journal of Medicine and Philosophy, 30:411–430, 2005
a cura del dr. S. Vasta*
Presidente Ass. Non Profit I.Change

Per Gentile concessione dell’autrice


26 luglio 2010
 


Prof. Cheryl Misak
Interim Vice-President and Provost University of Toronto, Canada

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Abstract
Vorrei attingere alla mia esperienza di essere stata paziente in UTI (Unità di Terapia Intensiva) per fare alcune riflessioni pratiche, etiche, filosofiche circa la cura di questi pazienti nei reparti di cure intensive.
Il tema ricorrente da me trattato in questo lavoro sarà le psicosi in UTI.
Io suggerisco che i pazienti dovrebbero essere educati ed istruiti prima delle loro dimissioni; Discuterò sugli ostacoli che si potrebbero incontrare nel fare questo; Ritengo che dobbiamo ripensare l'autonomia dei pazienti alla luce di queste problematiche, e propongo che bisogna ripensare alla disgregazione del se di fronte a questi problemi.

INTRODUZIONE

Quando ho detto ad un mio collega filosofo che mi era stato chiesto di partecipare ad una conferenza di Bioetica parlando della mia recente esperienza di aver sofferto di uno Shock settico, ARDS (sindrome da distress respiratorio acuto), e di una MOF, Insufficienza multiorgano, egli ha risposto che gli eticisti dovrebbero impegnarsi in un'esperienza guidata, che deliberatamente attiri su di se un diversificato bagaglio di conoscenze in gioco nella nostra vita morale. In altre parole, imparare dall'esperienza.
Questo comporta, per l'etica in generale, di dover ascoltare di prima mano i racconti di persone colpite da una malattia e approfondire gli interventi medici e le politiche a cui sono sottoposti.
Il bioeticista come ogni eticista, deve teorizzare a partire dalla prassi ed esperienze, così come dagli alti vertici del principio filosofico.
Quindi, tenterò di coinvolgervi in un dibattito bioetico basato sulla mia esperienza di essere stata affetta da una grave malattia. 
L' ARDS è una malattia polmonare causata da un certo numero di patologie: sepsi, traumi, ustioni, e così via. Di solito è accompagnata dalla ventilazione meccanica e da altre forme di sostegno vitale.È quindi posso descrivervi ciò, recuperando una parte significativa del mio periodo di degenza in una unità di terapia intensiva medico-chirurgici (di seguito, UTI). Quando sono stata ricoverata in l'ospedale, ero già alle soglie della morte. Sono stata messa in ventilazione e trascorsi le settimane successive in MOF e paralizzata, in stato di coma indotto dai sedativi, con una minima possibilità di sopravvivenza. A mio marito fu detto in due occasioni che i miei polmoni non mi avrebbero permesso di superare la notte, e che quando mi sarei ripresa, sarei stata emaciata, con una grave perdita della funzione polmonare, e incredibilmente debole. Poi le cose sono andate ancora peggio.
Ci sono tre tipi di riflessioni che vorrei proporvi tratte da questo insieme di esperienze.

- Vi parlerò di come, per esempio, la nostra conoscenza della malattia critica ha esigenze di un approfondimento, e di come tale approfondimento richiede il prendere in considerazione l'esperienza del paziente. 

Quindi, nel fare questo tipo di riflessione, aggiungerò la mia voce ai "risultati" di quei ricercatori, che già pensano che prendere in maggiore considerazione l'esperienza del malato sia urgentemente necessario.

- Il secondo tipo di osservazione è di etica medica, con riferimento alla doti morali che devono possedere infermieri e medici in UTI, ed i loro ospedali.

Io sostengo, ad esempio, che i risultati degli studi di cui sopra devono essere comunicati ai pazienti al momento della dimissione. E sostengo il principio dell'autonomia del paziente, e cioè che i medici devono rispettare l'intrinseco valore delle persone, (riguardo la loro capacità di portare avanti la loro vita per se stessi, anche nel caso vi sia motivo di pensare che essi stiano commettendo un errore).

- Il terzo tipo di osservazione è più squsitamente Filosofica, sviluppata su ciò che possiamo conoscere di noi stessi, e circa la vera natura del sé, alla luce di tali esperienze.

Andando oltre il senso comune: lezione sulla Psicosi in UTI.

Alcune parti della bioetica, a mio parere, sembrano basarsi saldamente sul senso comune.
Non ho infatti bisogno di scomodare i grandi scienziati dicendo che quando un paziente, gravemente malato in UTI, è in una precaria e disperata condizione, la gentilezza e la decenza degli infermieri e dei medici diventa di grandissima importanza. Possiamo farcene una idea immaginando come possa sentirsi qualcuno in precarie e disperate condizioni di salute.
Ma vi sono alcune cose che non possono essere pienamente capite se non vengono guardate dal di dentro, e da persone con la necessaria esperienza.
Una di queste cose, mi permetto di suggerire, è il complesso fenomeno della psicosi in UTI.
Ci sono due tipi di tragiche implicazioni in quello che la professione medica, con un certo “charme” chiama un grave "insulto". La prima deriva da ciò che fisicamente viene fuori: il dolore, l'estremo disagio che viene fornito con la ventilazione meccanica, e il panico indotto dal processo di aspirazione e dalla conseguente incapacità di respirare.
Ma vi è una seconda, forse anche peggiore, tragica implicazione: quella di camminare ben oltre la linea sfumata che separa la ragione dalla follia.
Numerosi studi hanno esaminato le difficoltà incontrate dagli stati mentali di pazienti ricoverati in UTI con ARDS.
Di quei pazienti che sopravvivono e ricordano qualcosa, alla fine molti ricordano episodi a carattere psicotico strazianti. Questi sono di solito "incubi" spesso bizzarri e di natura estremamente “terrifica", allucinazioni, e deliri paranoici, di solito di un infermiere o un medico che mettono in pratica tentativi di stupro, omicidio, o altri danni nei riguardi del paziente.
Non è chiaro che cosa provoca questa brutta serie di deliri o allucinazioni.
Il dito è puntato a volte sui sedativi e sul blocco neuromuscolare, altre volte sulla deprivazione del sonno, altre su disfunzioni del sistema nervoso centrale; o forse è solo che nelle Mof spesso uno degli organi disfunzionanti è il cervello.
È interessante notare che spesso, scivolare verso la follia in UTI, non sembra essere associato ad altri pazienti ventilati che sopportano un dolore ed un' ansia significativa. Un grande studio tedesco che approfondiva i rapporti tra ARDS e ICU psicosi aveva come gruppo di controllo  pazienti che avevano subito chirurgia maxillo-facciale

"Questo gruppo di pazienti con tumore, è stato scelto perché rappresenta pazienti che necessitano di intubazione perioperatoria e ventilazione meccanica prolungata, ma che quasi mai subiscono un ricovero in UTI e raramente riportano distress respiratorio, ansia, o esperienze traumatiche in ospedale durante il loro ricovero "(Schelling Et al., 1998, pag 652).

Qualunque sia la causa precisa, la cosa che rende questi fenomeni particolarmente insidiosi e terribili è il fatto che, a differenza di ordinari incubi, sono più simili a deliri paranoici, tendono a verificarsi in tempo reale e si agganciano a fette di realtà esterna. Uno prende di mira un medico o infermiere in UTI, gli cuce addosso una violenta teoria cospirativa intorno alla propria persona, e così la cospirazione riproduce se stessa, inserendosi tra le procedure mediche. E’ la fusione di realtà e perverse invenzioni, che rende tutto più confuso e sconvolgente. Uno letteralmente perde il controllo su ciò che è vero e ciò che è falso, perché il vero e il falso sono mescolati insieme in un caos di esperienza.

Infatti, è stato suggerito che non si tratta di "ricordi spiacevoli di eventi realmente critici accaduti durante la malattia ", legati al Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD), a cui possono seguire le psicosi in UTI: ma di veri e propri ricordi allucinatori (Jones, Griffiths, Humphris, & Skirrow, 2001).

La maggior parte dei pazienti ricordano eventi reali (le estreme procedure mediche, l'orribile sensazione di annegamento, quando non si può respirare, prima di essere attaccati al respiratore, o aspirati, etc); la parte minore ricorda le sensazioni tardive legate ai sintomi del PTSD (ansia, perdita di memoria, insonnia, incubi ricorrenti in UTI, etc). Avere solo alcuni ricordi di ciò che realmente è accaduto, non importa quanto sia stato terribile, sembra sia protettivo contro il PTSD. Credo che questo sia perché il fatto di avere memoria, ricordi di eventi reali, permette al paziente di chiedersi il perché delle allucinazioni.

Infatti, coloro che non ricordano nulla sono più a rischio di PTSD e di depressioni a lungo termine, rispetto a coloro che ricordano solo alcuni eventi reali. Forse hanno avuto le allucinazioni e stanno sperimentando i loro effetti sommersi.

La mia esperienza tende a considerare i miei ricordi più sgradevoli, dettati da una psicosi allucinatoria, ed a condividere l'ipotesi che uno dei benefici è sapere che alcuni degli eventi che ho ricordato sono successi davvero: e che non ero stata, del tutto pazza, per tutto il tempo.

Ho immagazzinato una grande quantità di ricordi. E per settimane, dopo la ripresa della coscienza, la mia preoccupazione centrale fu il tentativo di comprendere quali ricordi erano realmente accaduti e quali eventi invece fossero stati solo immaginati. E stato estremamente importante arrivare a questo.

Mi sono ricordata che a un certo punto una donna con un grande crocifisso attorno al collo, mi aveva chiesto se avessi necessità di vedere un sacerdote. Mi è sembrato che essa fosse, data la somiglianza, una mia amica fraterna, e non riuscivo a capire come potesse essere che lei in UTI mi ponesse questa domanda, dato che era ebrea, e che viveva in Parigi.

Ero certa che fosse una allucinazione, nonostante i miei sforzi per essere il più sveglia possibile e sana di mente. Subito dopo, quando potei andare in giro, e vidi questa donna in UTI, la indicai in presenza di mio marito:

"Questo è il cappellano della ICU", egli mi rispose. "Assomiglia alla nostra amica Giuditta, non è vero?"

E' stato per me un enorme sollievo mettere al suo posto questo ricordo nella casella corretta.
Ma a gran parte delle domande potei dare una risposta solo quando fui estubata.

Quando ho potuto domandare ad altri quello che è successo. Ho chiesto a mio marito, per esempio, se quello che vedevo fosse stato un party Natalizio (ma eravamo in aprile), durante il quale i medici dell'UTI avevano bevuto abbondanti quantità di alcool e proceduto a una specie di parata, ridicola, umiliando i pazienti, me compreso, data la loro esagerata allegria. Parte di me sapeva che questo non sarebbe potuto accadere, ma sembrava così vero che una parte di me non poteva credere che ciò non stesse accadendo.
Io credo che non sarà mai abbastanza, scrollarsi questa "memoria" di essere tanto sciagurata, fisicamente repressa, non in grado di parlare, e alla mercé di quella banda di sadici crudeli.
Naturalmente, il fatto che un paziente abbia questa memoria di persone che, disinteressatamente, hanno combattuto giorno e notte per salvarti la vita, mi creava un grande imbarazzo.
La allucinazioni più persistenti erano iniziate quando potei rendermi conto di essere ventilata e del battere delle macchine a cui ero stata “incatenata”. Il dolore e il fastidio erano indicibili e fare problemi molto peggio, dato che il personale medico era in piedi vicino a me con la polizia, nel tentativo di costringermi a deporre accusando uno mio studente problematico, che mi aveva causato problemi reali appena prima di essermi ammalata. Sapevo che questo studente era in parte responsabile per la mia malattia, e le allucinazioni sono state molto convincenti: tanto convincenti che, una volta risalita di coscienza, era quasi impossibile per me disfarmi della convinzione che un certo medico aveva cercato di costringermi a fare la denuncia. Ancora una volta, ciò che è strano è che queste allucinazioni sono un mix di realtà e finzione: Io non potevo allucinare il rumore delle macchine, il dolore, il contesto di sfondo, i medici e gli infermieri (I cui nomi ed i singoli caratteri e figure apparivano in modo accurato nei deliri), ma certamente ho allucinato la Polizia e la costrizione a fare la denuncia.
Ho letto che queste esperienze traumatiche in UTI, possono esssere emotivamente devastanti “come il risveglio intra-operatorio durante l'anestesia”.
(Schelling et al., 1998, p. 658).

Entrambi sono Associati con un elevata incidenza di PTSD nelle settimane e negli anni dopo la dimissione.   
Dovrebbe essere chiaro che le difficoltà mentali di questo tipo (e ho tralasciato gli orribili dettagli delle descrizioni dei deliri) determinano piuttosto gravi conseguenze per il rapporto medico-paziente.
Più importante ancora: dobbiamo adottare il principio che il paziente ed i familiari dovrebbero prendere parte nelle decisioni circa la cura, o di essere parte del team di cura nel processo decisionale .
Infatti, una seconda fonte di angoscia in UTI, rientra nel problematico status del principio di autonomia del paziente: l'incredibilmente intenso desiderio di essere estubati e poi “rilasciati”, costi quel che costi.
Deve essere abbastanza chiaro che tutti i pazienti intubati cercano di essere staccati dal respiratore. Cercare di strapparsi il tubo rappresenta un fenomeno frequente: il termine tecnico è "estubazione non pianificata."
Ero così disperata che, durante i primi giorni di mezza coscienza, ho avuto una serie di allucinazioni, nelle quali vedevo "la squadra" andare a turno in ogni letto ad estubare i pazienti, paziente dopo paziente, scavalcando del tutto il mio letto, nonostante io immaginassi di stare sventolando le mani per cercare di attrarre la loro attenzione.
Sono riuscita a comunicare questa disperazione ad infermieri e medici, nonostante il fatto che non potessi parlare, e fossi troppo debole per scrivere qualcosa di leggibile, anche di una sola parola, sulla lavagnetta che mi era stata data per questo scopo.
Inoltre, nonostante il mio desiderio di vederli fosse terribile, non desideravo che i miei figli, ancora piccoli, già traumatizzati da ciò che stavo passando, mi visitassero, fino a quando non fossi stata staccata dal ventilatore, così da essere, per loro, meno spaventosa.
Vari medici mi vennero incontro, mi mostrarono i raggi X dei miei polmoni, e mi spiegarono il perché essi non erano ancora pronti ad andare da soli. I miei sguardi arrabbiati, tuttavia, furono convincenti e fui estubata un giorno o due prima di quanto si pensasse. E poi, sono stata spostata di reparto dopo appena due notti.
Sono stata naturalmente molto grata a tutti per entrambe queste cose.
Ma anche a quel tempo rimasi meravigliata che i miei desideri fossero stati presi in considerazione.
E una volta che sono tornata a casa, in uno stato di allarmante fragilità, non era chiaro per me o per la mia famiglia che questo fosse, per me, il migliore outcome possibile.

Il rispetto per l’autonomia del pazienteMentre il principio del rispetto per l'autonomia del paziente è presente nelle cure sanitarie, i team di cura, per esaudire i loro doveri morali nei confronti di un paziente, dovrebbero trattare il paziente, come se quest’ultimo fosse un attore a pieno titolo nell'attività decisionale della squadra; ma sembra piuttosto evidente che questo principio non venga ad essere sempre accolto nella medicina critica. Si dovrebbe percorrere la strada principale del rispetto sulle decisioni di fine vita e del rispetto per le questioni riguardanti la resuscitazione e la continuazione o meno delle cure stesse (accanimento terapeutico)
Ma non è così, e, mi permetto di suggerire, semplicemente nuove strade per affrontare i trattamenti più di routine.
Al fine di rendere questi suggerimenti plausibili, offrirò tre argomenti.
Il primo è, come Franklin e Rosenbloom (2000) hanno sottolineato, che la posta in gioco è più alta e critica nella medicina intensiva: una decisione irrazionale presa su un malato critico rischia di essere catastrofica. Certo, nessuno valutò la mia competenza e quindi nessuno mi espose i pro ed i contro della intubazione in modo da poter avere il mio consenso. Essi mi dissero che avrebbero proceduto ad intubarmi per potermi ventilare al meglio, e che stavano inserendomi un tubo in trachea per aiutarmi a respirare ma, in generale, minimizzando e semplificando l'intero episodio. 
Gli altri due argomenti hanno a che fare con il pensiero, che è ben lungi dall'essere in UTI chiaro, che i pazienti siano competenti, anche quando sembrano non esserlo. Ed in grado di partecipare al processo decisionale.
Sebbene il principio di autonomia del paziente (espresso dallo slogan che il paziente è una parte del processo decisionale di squadra) sembra essere onnipresente e oggi più importante nei servizi di assistenza, forse altri fattori sono importanti per il processo decisionale.
Per esempio, mi è stato detto che,  la decisione di estubarmi è stata una valutazione della mia volontà di recupero, misurata dal fatto che i miei segni vitali miglioravano quando ascoltavo le voci dei miei bambini, in un messaggio su nastro registrato.
O forse per una decisione medica basata sul fatto che è meglio estubare qualcuno che ha un estremo desiderio di essere estubato, che lasciarlo attaccato al ventilatore.
Ma se il principio di autonomia del paziente è di fatto operativo come una ben accettata menzogna, allora esso deve essere migliorato (sia eticamente e praticamente), per essere reso esplicito.

Andando oltre il senso comune: Riflessioni sulla Transizione.
Quando sono stata spostata dall’ UTI al reparto, ero ancora terribilmente traballante, piena di strani dolori al torace, e più debole di quanto è possibile immaginare.
Avrei potuto sedermi su una sedia per pochi minuti, ma mai stare stare in piedi o fare un semplice passo.
Il reparto, naturalmente, è stato un mondo diverso, con infermieri molto occupati; ed era difficile, se non quasi impossibile, ottenere aiuto per fare cose piuttosto necessarie, come andare in bagno ( Naturalmente, dopo settimane di cateterismo, uno perde i naturali punti di riferimento per questo).
Il passaggio dall’ avere qualcuno al tuo letto 24 ore al giorno all’ avere qualcuno quelle poche volte che si verifica qualcosa, specie di notte, è inquietante, ed assolutamente spaventevole. 
Il panico per me è stato mitigato dal fatto che molto presto e di primo mattino il primo giorno che fui trasferita di reparto, una splendida infermiera dell' UTI è stata al mio capezzale, appena finito il suo turno, senza dubbio stanchissima e bisognevole di tornare a casa.Mi è stata accanto per lungo tempo, per rendere certo che mi fosse dato ciò di cui avevo bisogno; diede anche risposta, alle mie innumerevoli domande, e rappresentò per me un apprezzato legame tra la massima protezione che avevo ricevuto in UTI e la protezione minima del reparto in cui ero.

Ma, ovviamente, tali cure erano supererogate: Non erano sistematiche e non avrebbero potuto essere invocate.
Certamente seguire il paziente a casa, stare con lui per i prossimi cinque anni, renderebbe certo tutto più liscio. Ma ciò non né fattibile né realizzabile. La questione si pone solo per ciò che è ragionevole aspettarsi dai medici e infermieri dell’ UTI, e solo da ciò che è ragionevole  aspettarsi dall'istituzione (l'ospedale) stessa.
Vorrei suggerire due semplici, e poco onerose, misure concrete che sarebbe in grado di soddisfare le aspettative in maniera ragionevole.
In primo luogo, vi è chiaramente il dovere di cercare di ridurre al minimo il trauma della transizione, nel passaggio dall’ UTI al reparto.
In ospedale si debbono quindi attuare dei programmi (che in alcuni casi sono in itinere) riguardanti un Critical Care Team di transizione. Se scopo di questo tipo di iniziativa è quello di ottenere i migliori risultati, si deve sollecitare l'ingresso nel programma dei pazienti che sono effettivamente passati attraverso queste transizioni. Si deve sapere quali sono le problematiche che preoccupano i pazienti che si spostano dall’ UTI al reparto: come per esempio la mancanza di contatto umano che hanno avuto in UTI, la riduzione di frequenza dei controlli sulla loro condizione, etc.
In secondo luogo, sembra anche chiaro che non si debba lasciare che il paziente vada alla deriva, una volta che lui o lei lascia l'ospedale. Il medico generico che cura il paziente ed a cui è affidato deve essere ben informato su cosa aspettarsi. Su ciò che potrebbe aspettarsi nei prossimi giorni, settimane, mesi, e negli anni a seguire.
Sono stato in una posizione privilegiata in materia di acquisizione di informazioni. Ho avuto l'accesso ad una biblioteca medico scolastica, ad articoli accademici ed i reumatologi mi hanno aiutata. Non tutti sono in grado e disposti ad avvalersi di un esperto o di tali informazioni.

Forse ciò che è necessario è una “hotline” per pazienti critici, che dia risposta alle domande del paziente .
Molta incertezza ed angoscia potrebbe essere evitata con una certa attenzione nel disporre di informazioni. Vi è stato recentemente una ricerca sugli esiti post UTI, "Un anno di risultati nei superstiti della Sindrome da distress respiratorio acuto”, dove Margaret Herridge ha studiato 109 pazienti che sono sopravvissuti all' ARDS e ha rilevato che essi hanno sviluppato una persistente disabilità funzionale un anno dopo la dimissione, con deperimento muscolare e intensa debolezza. Si pensa che il trauma al sistema muscolo-nervoso sia una delle sequele di una Mof, a seguito di una prolungata immobilizzazione e per la somministrazione di alte dosi di corticosteroidi, che sono spesso somministrati a tali pazienti.
Il risultato è che le nuove ricerche devono essere messe a disposizione dei pazienti prima che vengano dimessi. Questa è una necessità, se medici, infermieri, e l'ospedale stesso, devono compiere sino all'ultimo i propri compiti, verso coloro che sono stati gravemente malati. I medici e i servizi sanitari devono fare più ricerca, sulla scia di queste gravi malattie, e su come i cambiamenti in UTI e post-UTI, possano aiutare i pazienti ad ottenere i migliori risultati. Di cui essi hanno estremo bisogno, trovando il modo di rendere queste ricerche accessibili ai pazienti stessi.
Le questioni sono complesse naturalmente anche in questo senso. 
Suppongo che si debba però avere una diversa considerazione nei confronti di una piena informazione dei pazienti, fornendola.  

Un ultima riflessione:In conclusione, permettetemi di parlare brevemente dal punto di vista filosofico come ho promesso circa la natura del sé. Le psicosi in UTI è sono un particolare tipo di follia. Come ho detto sopra, le cause sono locali e una volta che il paziente recupera, non vi è alcun motivo di sospettare che essa ritornerà.
Il paziente in UTI sofferente di psicosi è quindi in una posizione diciamo così “favorevole” rispetto ad altri tipi di follia.
La Follia è ovviamente qualcosa di estremamente complesso e un fenomeno poco comprensibile.
In effetti, ci sono tanti tipi di follia, che è senza dubbio un errore etichettare essa quasi fosse un unico fenomeno. I Deliri sono talvolta definiti dalle loro caratteristiche, ma vi è polemica anche su come concepire i deliri stessi.
Secondo una "ortodossa concezione della follia", i deliri sono il fallimento del distinguere in modo adeguato tra il reale e l'immaginario. Su questo punto, coloro che soffrono di deliri tendono a credere l'immaginario come obiettivo e reale, e motivo di azione: il "sentire" l'immaginario, per il paziente psicotico, è identico a quello di sentire il reale.
Potete vedere il disimpegno dall' esperienza nel lavoro di alcuni artisti post-moderni, come la fotografa Diane Arbus (Sass, 1994, p. 115).
L'esperienza della follia mette in evidenza la fragilità del sé. Noi pensiamo a noi stessi come individui caratterizzati da un insieme di ricordi, credenze, desideri, e priorità.
Io sono ciò che sono a causa della mia storia e di una serie di memorie e di atteggiamenti nei confronti della mia storia stessa, e perché ho stabile, anche se in evoluzione, dentro di me, l'insieme di credenze, desideri, disposizioni emotive, e priorità. Immaginate la perdita di tale relativamente stabile insieme di stati mentali, e disporrete di un buon quadro di quello che è, come esperienza, la follia. Ciò che è più interessante nella follia è che una disintegrazione del se, una profonda perdita di se stessi.
Ciò sembra dirci che esso (il sé) sia qualcosa da raggiungere, come l'autodeterminazione, che è un risultato, e non un dono o qualcosa dato per scontato.
Se uno ha incontrato una psicosi da ricovero in UTI, forse sente che ciò che costituisce il sé, può semplicemente e facilmente scomparire. Questi pensieri ci riportano direttamente alla domanda sulla propria autonomia. Come David Velleman mette in evidenza, nelle estreme circostanze di insopportabile dolore fisico, non siamo in grado di rivendicare l' ampio diritto all’ auto-determinazione in nome del paziente. In circostanze estreme un paziente "è già nel crepuscolo della sua autonomia, dove “l'autodeterminazione del sé è più una ombrosa presunzione che un fatto chiaro” (1999, pp. 618-619). Il paziente è e non è agente responsabile in questo crepuscolo. In tali circostanze, il sé letteralmente è a rischio di cadere in pezzi, disgregarsi, o venire annullato.
Ciò che ho imparato al riguardo e in merito al difficile, penalizzante, ed ammirevole mondo delle UTI dei suoi medici e degli infermieri ha avuto per me un valore in sé.





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Per un approfondimento consulta anche:http://www.ICUdelirium.org.


 
 
 
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Medicina Subacquea e Iperbarica N. 2 - Giugno 2007 - 45

L. Cantadori, G. Vezzani



 
 
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