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Racconti a margine

Bangladesh: un’esperienza di volontariato in ospedale

18/12/2010  
Scritto da Serafina Ardizzone
7 Dicembre 2010

Bangladesh: un’esperienza di volontariato in ospedale 

di Serafina Ardizzone

7 Dicembre 2010

A Giugno di quest’anno ho ricevuto una telefonata da Anna , una mia amica che si occupa di Anestesia e Rianimazione Pediatrica e che mi proponeva di andare con lei in un ospedale del Bangladesh ad occuparci di bambini con malformazioni al viso. Lei era stata contattata dall’associazione “ Progetto Sorriso Nel Mondo” che da anni si occupa del trattamento delle malformazioni cranio-facciali e delle ustioni in alcuni paesi in via di sviluppo, .

 

Quando ho ricevuto questa proposta,  avevo  solo  vaghe idee  sul Bangladesh: ho pensato a Sandokan,a Lady Marianna, la perla di Labuan e alla tigre del Bengala….

In questi casi Internet è veramente utile: grazie a Google Earth e a Wikipedia ho trovato che guardando la cartina il Bangladesh si trova a destra dell’india e del Pakistan e a sinistra del Myanmar, è un paese esteso quanto Galles e Inghilterra ed ha 150.000.000 di abitanti. Dopo il colonialismo inglese è stato annesso al Pakistan, dal quale ha conquistato l’indipendenza  nel 1971 in seguito a una lunga e sanguinosa guerra. E’ uno dei  paesi più poveri, più inquinati e più corrotti del mondo.

Ho continuato la ricerca nelle librerie ed ho scoperto che è veramente difficile trovare pubblicazioni in italiano sul Bangladesh: se vuoi andare in India trovi guide per ogni regione ed approfondimenti sull’estetica e la filosofia indiana, inoltre esistono cattedre di Indologia e di Storia dell’Arte Indiana presso alcune università italiane.

Sul Bangladesh quasi niente, scelgo fra i pochi titoli “ Un mondo senza povertà” dell’economista bengalese premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, “Bangladesh, Inferno di delizie” della giornalista Stefania Ragusa e una guida della lonely planet , in inglese perché in italiano non ce ne sono.

Con la scorta di questo scarno bagaglio culturale partiamo da Palermo : siamo 2 anestesisti , Anna ed io , un chirurgo plastico , Raffaele e suo figlio Manfredi, studente di giurisprudenza , disponibile ad aiutarci un qualsiasi modo. La nostra prima tappa è Milano Malpensa dove incontriamo gli altri componenti dell’equipe sanitaria , Francesco , chirurgo pediatra, con  Claudio e Stefano  giovani colleghi anche loro chirurghi e Federica, infermiera di terapia intensiva pediatrica.

Tranne Francesco che da parecchi anni collabora con la onlus “Progetto Sorriso nel Mondo”, siamo tutti alla prima esperienza .

Il viaggio sarà abbastanza lungo e prevede dopo una sosta di alcune ore  a Dubai, l’arrivo a Dhaka , capitale del Bangladesh,  infine il trasferimento in pullman a Mymensingh dove si trova l’ospedale nel quale lavoreremo.

L’aereo Milano-Dubai è pieno di turisti occidentali ma su quello per Dhaka sembra proprio di essere in un altro mondo, l’aereo è affollatissimo ma ci sono pochissimi occidentali, gli uomini indossano turbanti o altri strani cappelli, alcune donne il burqa, altre il sari, altre ancora semplici foulard, si parlano diverse lingue ma non c’è confusione, la sistemazione si svolge con molta calma, come colonna sonora musica orientale.

All’aereoporto di  Dhaka ci accolgono padre Riccardo che dirige l’ospedale nel quale ci stiamo recando e Massimo, funzionario dell’ambasciata italiana. L’attesa per il disbrigo pratiche burocratiche ci consente di scambiare qualche parola con i nostri 2 ospiti: l’impatto è forte come tutto ciò che avviene da questo momento in poi. Per cominciare Riccardo non è esattamente come noi  occidentali immaginiamo che debba essere un frate missionario Saveriano: non è tanto il suo look a colpirci ,che comunque è decisamente informale, quanto quello che dice e come lo dice tanto da farci pensare che forse non è neanche un religioso. Col tempo capiremo che, se vivi da 30 anni in Bangladesh  e fai cose veramente importanti come raccogliere i bambini di strada e cercare di dar loro un futuro oppure trovare quelli malformati e farli operare, non ti frega più di tanto di certi formalismi a cui noi occidentali teniamo tanto.

All’uscita dall’aeroporto ci investono l’afa e il vociare di una folla che si accalca dietro una recinzione metallica, pensiamo ad una manifestazione o uno sciopero: ci spiegavano che in realtà è la normale presenza di curiosi che sta ’ a guardare chi arriva dall’estero .

Stremati ci sistemiamo su 2 pulmini,  il fastidio dovuto al caldo è aumentato dalla nostra stanchezza; la guida dell’autista è disinvolta come pure l’uso del clacson il cui suono intermittente ci accompagnerà fino al Mymensing. Ci spiegano che suonare è indispensabile, è un modo di annunciarsi, se non lo fai, in caso di incidente hai comunque torto.

Ci colpiscono subito la confusione, l’enorme quantità di gente per le strade, il traffico di  automobili sgangherate, autobus cadenti , baby-taxi e soprattutto rickshaw, l’aria è pesante non solo per l’umidità ma anche per l’inquinamento e dopo un po’ si fa fatica a respirare.

Con  disagio osserviamo un mondo estraneo, diverso: una sorta di bidonville si estende quasi senza interruzione da Dhaka a Mymensing, niente marciapiedi, baracche fatiscenti, rickshaw coloratissimi su cui pedala faticosamente gente di ogni età, ragazzi ma anche vecchietti, sono mono o biposto , alcuni sono a motore e possono ospitare molti passeggeri, osserviamo palazzi semidistrutti in mezzo a bancarelle che espongono mercanzie di vario genere, dagli alimentari all’abbigliamento. 

L’impatto è decisamente sgradevole! Bombardata dal rumore dei clacson e respirando a fatica cerco di capire qualcosa del mondo che mi circonda ma mancano punti di riferimento, mi chiedo se è ancora un paese orientale o non stia diventando il peggio di un paese occidentale, in definitiva  è un paese in pieno degrado, la miseria forse è uguale dovunque.

Le distanze in Bangladesh non si misurano in Km, potrebbe essere fuorviante, è preferibile utilizzare le unità di misura del tempo, Dhaka e Mymensing distano circa 150 km ma questa percorso si copre in 2-3 ore a causa del traffico e delle strade piuttosto accidentate.

Mymensingh, la nostra destinazione finale, è stata la capitale di un distretto appartenuto all’India Britannica, oggi è una verdeggiante cittadina posta sulla riva orientale del fiume Brahmaputra con circa 225.000 abitanti che sono prevalentemente mussulmani, anche gli Hindu sono ben rappresentati, vi è inoltre una piccola percentuale di Buddisti e Cristiani. La città è circondata da foreste ricche di alberi che hanno una grande capacità di assorbire anidride carbonica contrastando cosi’ l’inquinamento che è uno dei grandi problemi di questo popolo assieme alla povertà e alla corruzione.

La maggior parte dei nostri pazienti arriva proprio da queste foreste dove vive una popolazione tribale, i più poveri tra i poveri, gli ultimi degli ultimi, i fuori casta. Vivono nel Madhupur National Park, in enclave completamente isolate dai pur poveri villaggi mussulmani. Probabilmente sono migrati dalla Cina e

 si autodefiniscono Mandi, che nella loro lingua significa Esseri Umani, per proclamare la loro appartenenza al genere umano, appartenenza messa in discussione  dai popoli che li circondano. La loro lingua è solo parlata e la  società è matrilineare: il nome e l’eredità passa da madre a figlia, i figli assumono il nome della madre e i maschi non ereditano niente, quando si sposano il marito va a vivere a casa della suocera.

La loro religione è l’Animismo, hanno grande rispetto della Natura e dei loro  Antenati.

Si avvicinano ai Missionari Cattolici perché questi, a differenza degli Indù e dei Mussulmani, non tentano di scalfire la loro identità culturale, non cercano di convertirli ma solo di aiutarli, mentre gli altri vorrebbero imporre il proprio modello culturale: gli Indù la divisione in caste, i Mussulmani il modello patriarcale. 

Al nostro arrivo ne troviamo tanti ad aspettarci, la nostra mission è operare soprattutto bambini con malformazioni al volto ed esiti cicatriziali di ustioni inveterate.

Dal momento in cui abbiamo messo piede in ospedale il lavoro e stato incalzante: la sala operatoria è stata in funzione dalle 10 alle 14 ore al giorno ininterrotte, contemporaneamente vengono fatte le visite pre-operatorie, il programma operatorio per il giorno successivo e le medicazioni dei pazienti operati nei giorni precedenti. Lavoriamo circondati da bambini e dai loro genitori: i bambini sono bellissimi, hanno occhi dolci, grandi, neri, anche le donne sono molto belle,  eleganti, avvolte in leggere stoffe colorate, hanno un portamento molto dignitoso, un incedere quasi regale, tutti parlano piano, sorridono un po’ vergognosi, timidi, ma se gli chiedi una foto si mettono subito in posa, grati della tua attenzione. Sono poverissimi ma hanno tutti il cellulare e a volte ci accorgiamo che ci fotografano : in fondo la presenza di noi, cosi’ diversi, è un evento da immortalare!

Ogni sera ceniamo tutti insieme intorno ad un grande tavolo con Padre Riccardo e con padre Attilio, quest’ultimo parroco della missione che ci ospita, anche lui frate Saveriano, anche lui in Bangladesh da più di 30 anni. 

 Ogni sera dopo cena andiamo a controllare che i pazienti operati stiano bene, che non abbiano dolore, che le terapie prescritte siano state effettivamente somministrate.

Abbiamo operato anche adulti, ragazze con esiti deturpanti di ustioni da acidi, tumori , angiomi,  ferite infette da morsi di alligatori. Al 3o giorno  abbiamo capito che era opportuno abbandonare lo standard di lavoro cui siamo abituati nei nostri ospedali, pena l’interruzione dell’attività operatoria in breve tempo. Forse inutile specificare che non abbiamo mai visto un Rx Torace o ECG o esami ematochimici. Tuttavia nonostante la mole di lavoro, la povertà dei mezzi e la precarietà delle condizioni igieniche non ci siamo mai sentiti stressati, per fortuna si sono presentati solo problemi che siamo riusciti a risolvere ma nessun incidente grave. Alla partenza da Milano eravamo 8 persone che non si conoscevano, e in breve tempo siamo diventati una equipe affiatata con un’intesa che a volte non si raggiunge neanche dopo anni di lavoro in comune. Penso che il merito sia soprattutto di questa gente, i bambini, i loro genitori, tutti i pazienti e i loro parenti che coi loro sguardi, i loro gesti, le loro parole che noi non capivamo, ci hanno dato la carica per sostenere ritmi massacranti. Prima di lasciare Mymensing ciascuno di noi ha ricevuto un documento che attestava il lavoro svolto: 62 interventi, nessuna complicanza o morbilità; l’abbiamo ricevuto dalle mani di Riccardo con l’orgoglio dei ragazzini che ricevono  buoni voti nella pagella. 

 Concludo con una frase che è comune fra tutti coloro che fanno questo tipo di esperienza e credo di esprimere il pensiero di tutti i miei compagni :  abbiamo ricevuto più di quanto abbiamo dato.

 

Sitografia

http://www.progettosorrisonelmondo.org/pagine/ita/gallery.lasso#



email di contatto: segnalazioni@timeoutintensiva.it


18/12/2010

 

 

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