Aspetti psicologici del dolore cronico
dr. Cecilia Dolcemascolo
 
Psicologa, 25/06/2007, Palermo



Il dolore è un fenomeno complesso e soggettivo, poiché contiene, in quanto esperienza, una dimensione esistenziale.

Esso caratterizza una condizione di patologia divenendo, in alcuni casi, una variabile indispensabile, che informa della necessità di indagini appropriate.  Il dolore, cosi come viene descritto “nell’arco riflesso”, sta a segnalare che un evento nocivo produce una determinata reazione dell’organismo necessaria alla sopravvivenza. Se tale sollecitazione nociva o meglio se la consapevolezza di tale sollecitazione dolorosa supera i limiti della sopportabilità individuale, allora, la reazione al dolore, all’insegna della protezione psichica che ogni individuo attiva in sé, varierà con modalità esperenziali differenti.

Il dolore se percepito in eccesso e se si manifesta in una crisi dolorosa dilagante, può sovrastare ogni possibile attività e provocare nell’individuo la difficoltà ad organizzare il pensiero. L’attività di pensiero in quanto attività psichica sia dal punto di vista cognitivo, affettivo e relazionale, può modificarsi ed in casi più gravi cessare, quando una realtà “dolorosa”, quando un forte dolore fisico, irrompono. Riferendoci ad un continuum ipotetico di sopportabilità del dolore, esso può risultare pensabile ad un estremo, se ci riferiamo alla consapevolezza ed al senso di ciò che sta accadendo, alla connotazione dell’evento ed alla sua accettabilità. Mentre all’altro limite dell’esperire, può risultare insopportabile, e provocare una dissociazione psichica. Nell’arco delle possibili reazioni all’evento dolore, sia la consapevolezza che la dissociazione sono modalità che l’individuo attiva, in quanto modalità adattive all’evento. L’individuo posto di fronte ad una esperienza di malattia con connotazioni dolorose di tipo fisico-psichiche, utilizza manifestazioni comportamentali, espressive e reattive che gli sono consone e peculiari e che gli permettono un certo grado di tolleranza.

In talune manifestazioni di dolore cronico, l’uomo è costretto a vivere e occuparsi solamente della propria dimensione interna. L’esperienza dolorosa cronica spesso significa “diventare un altro” cioè sentire e costruire un cambiamento della propria esistenza.

L’individuo, nella prima fase cronica del dolore, vive una condizione che avverte  come “incomprensibile” e “inaccettabile” alla propria volontà. La unicità bio-psico-fisica del paziente si infrange contro una nuova realtà e la vita di relazione, che prima caratterizzava l’ esistenza, perde importanza. Il vissuto di dolore dilaga nella mente dell’individuo, assume un ritmo che equivale al grado di sedazione del farmaco prescritto. La nuova realtà assume connotazione sempre più strutturate e stabili che lo allontanano sempre di più dalla “vita” precedente alla patologia attuale. Non si sente più al centro del suo mondo, ma percepisce se stesso come un corpo dipendente da un farmaco, dai medici, dagli infermieri, da un familiare…. un corpo che ostacola ed impedisce ogni progettualità.

La possibilità di intervenire sul dolore si presenta, allora, come un aspetto della assistenza e della presa in carico del paziente, che protegge, innanzitutto, la sua attività psichica.

La tolleranza individuale al dolore e la comunicazione della sofferenza fisica e psichica non sempre risultano leggibili. In particolare, nel dolore cronico, alcuni pazienti trovano con relativa facilità le parole adatte, altri invece non riescono. A volte i malati sono insofferenti e non vogliono descrivere il loro dolore in termini di qualità, perché il dolore cronico può avere effetti devastanti: progetti interrotti, notti insonni, che possono portare ad uno stato di prostrazione e disperazione che spesso genera diffidenza e rassegnazione. Di fronte a tale compromissione relazionale e psichica c’è da chiedersi quale percorso esistenziale un individuo è costretto ad intraprendere per superare il dolore, se le reazioni all’eccesso di dolore percepito possono determinare finanche la perdita dei sensi, la disorganizzazione del pensiero, o ancora la sensazione di dissociazione dal corpo.

Le reazioni psicogene infatti variano anche in funzione delle caratteristiche del soggetto che le vive, del contesto in cui viene esperita e quindi vissuta l’esperienza, e possono essere transitorie o permanenti.

Il paziente si “adatta” come può all’evento doloroso, utilizzando i meccanismi di difesa che meglio conosce in attesa che qualcosa cambi.

La costellazione delle difese attivate, allora, varia in funzione della propria storia personale, della natura e specificità della patologia che provoca dolore, dalla modalità espressiva individuale.

Il dolore fisico, per esempio, può essere ben tollerato da un pugile sul ring e raggiungere gradi di  intensità altissima, mentre in condizioni di “tranquillità” uno stimolo innocuo, ma inaspettato, come una semplice puntura di uno spillo, fa allontanare dallo stimolo doloroso, ed assumere posture di difesa.   

Potremmo pertanto affermare che se ci si aspetta una “procedura offensiva” la nostra soglia del dolore varia poiché l’individuo possiede delle quote di autocontenimento e di "elevazione della soglia del dolore", attivabili in caso di necessità.

Fin da bambini apprendiamo a dare un senso alla nostra esperienza. E' esperienza comune osservare che quando un bimbo piccolo ancora incerto nell’incedere, cade, volge lo sguardo verso la madre, ancor prima di esprimere il proprio dolore. Lo sguardo e le parole della madre daranno significato all’esperienza del bambino e lo salvaguarderanno dalla paura e dal senso di abbandono. Con il senso dato attraverso l’affettività della madre, l’esperienza del bambino si potrà collocare in uno spazio ed in un tempo, in una pensabilità, in una collocazione dell’evento all’interno delle esperienze possibili.

 La pensabilità dell’evento, proviene anche dai significati e dalla comprensibilità dell’esperienza che un individuo è in condizione di poter ricevere dal proprio ambiente; ovvero, la conoscenza  dell’”oggetto” che causa dolore, fa variare il livello di soglia del dolore e di tolleranza ad esso attribuibile.

Nella mente di un individuo che vive il dramma del dolore, che sente incomprensibile questa realtà, il carico emotivo dilagante può portare alla depersonalizzazione e all’anestesia affettiva. Nella depersonalizzazione, l’individuo vive la propria condizione esperenziale come distaccata dal corpo, mentre nella anestesia affettiva, opera una scissione delle proprie componenti affettive, isolandosi.  Il dramma del dolore cronico impone al paziente la necessità di un cambiamento psicologico volto a ridefinire il proprio vissuto sociale e familiare attraverso una nuova dimensione esistenziale. 

Il processo di adattamento e di compliance terapeutica può essere raggiunto attraverso  il contenimento psicologico e l’attività di counseling integrati nel processo assistenziale. L’equipe terapeutica dovrà pertanto costruire con il paziente e la sua famiglia uno spazio di cura per la elaborazione delle problematiche emotive e psicologiche che la malattia comporta.

Il gruppo familiare del paziente, caratterizzato da regole, norme e ruoli, contribuisce o ostacola il "processo di adattamento" del proprio congiunto, predisponendo quasi una tipologia di "sofferenza". Infatti il nucleo familiare inteso come “rappresentazione psichica”, all’interno del quale ogni componente contribuisce a dar vita alla realizzazione del Sé, realizza equilibri e reazione emotive che gli sono proprie. Il microgruppo famiglia, nella eventualità di un evento patogeno di un proprio congiunto, evocherà  meccanismi psicologici e relazionali legati alla tolleranza al dolore che sono caratteristici del gruppo stesso.  Ogni componente focalizzerà la propria attenzione sul familiare sofferente, e proverà sentimenti che lo coinvolgeranno in maniera diversa; potrà provare risentimento, compassione, o anche amore totalizzante. Di fatto sarà il congiunto sofferente che “sceglierà chi avrà cura di lui e lo seguirà nel suo cammino”. In alcuni casi il partner di un paziente può divenire, così, la sua “ancora i salvezza” o la sua “valvola di sfogo”, con tutte le sfumature che tale affermazione contiene. In altri casi alcuni pazienti instaureranno con i propri congiunti un rapporto di estrema dipendenza che può oscillare da una "buona accettazione della cure” ad una relazione simbiotica devastante e soffocante per entrambi. Pertanto la famiglia si configura come la microcultura che il paziente porta con se e che orienterà, in parte, le sorti della relazione terapeutica.

Spesso ci capita di osservare che i familiari dei nostri pazienti, utilizzano delle modalità relazionali che possiamo definire esasperanti, volte all’insegna di una richiesta di intervento di tipo miracolistico. Sinergicamente, tale richiesta può suscitare nell’operatore un senso di sfida e di onnipotenza rispetto alle reali possibilità terapeutiche che determinate patologie presentano. Le angosce che i familiari ed i pazienti manifestano, invadono la mente dell’operatore sanitario, e quando queste tensioni vengono trasferite nel rapporto con i colleghi, riproducono la stessa natura del disagio sperimentato nei confronti del paziente e dei suoi familiari. In questa prospettiva, comprendere e valutare lo stato d’animo del paziente, la sua storia personale e quindi la sua malattia, permetterà di costruire un rapporto terapeutico fondato sulla "cura".

E’ indispensabile quindi considerare il paziente al centro della cura, aiutandolo e sostenendolo nelle varie fasi del trattamento terapeutico.

La relazione terapeutica così intesa, diventa uno strumento importante per comunicare le reali possibilità terapeutiche e favorire nel paziente il livello di tolleranza della propria condizione. In questa dimensione relazionale le informazioni che saranno date veicoleranno allora anche la cultura terapeutica che vige nell’ospedale, e probabilmente realizzeranno il cambiamento culturale rispetto alle sole terapie antalgiche.

 


 
tratto dal numero 14