numero 14
26 luglio 2010
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SUICIDE
di Salvatore Vasta


Si era fermata là sul viadotto nel buio. Nel punto più alto. Col freno a mano tirato era scesa, abbandonando le luci lampeggianti, e con gesti decisi, meticolosa si era tolta le scarpe, il paltò, si era raccolti i capelli con due giri di elastico e sistemata la gonna.
Scavalcare e buttarsi giù fu un tutt'uno, un tuffo più che un capitombolo. Per panorama a testa sotto il pilone le luci il buio vuoto. Giù per 110 metri, nel nero più profondo per 5, 6... forse 10 secondi di caduta libera. Circa 40 piani di palazzo.
Giù, sino alle braccia forti e stagionate di un vecchio padre, come quando dall'altalena saltavo tra le braccia del mio di padre.
Arrivo' alle 4 del mattino accompagnata da un anestesista che era volato con lei su un elicottero di soccorso, da dove era saltata sino a noi.
L'avevano sedata durante il volo, come addormentata per una anestesia, anche perché aveva gambe e braccia rotte in più punti, molto dolore, ma la testa no: "Di testa era perfetta prima di partire". Tac encefalo negativa.
Madre natura é grande dice Stefano, mentre la sistema insieme agli altri infermieri nel letto... 100 metri e poi un albero... mammamia!....

La paziente, una giovane donna di 27 anni non aveva nulla al capo nè alla colonna né agli organi interni, solo tutti gli arti fratturati in molti punti, come se quell'albero salvandola le avesse voluto lasciare comunque un ricordo di se, un segno della sua tenacia, frullandola tra i suoi rami ad ogni ricaduta. Come quando si lanciano e si ripigliano i bambini in aria scuotendoli un pò per farli ridere.
La polizia che venne a rilevare l'accaduto mi disse che l'avevano cercata con le torce per ore ma per terra; mentre lei era in alto, svenuta sull'ulivo.
Incontrai il padre. Il grande dolore che mi aspettavo si materializzo' in un signore minuto dai grandi occhiali che mi parlò di sua figlia come si parla di una malattia cronica che si porta addosso da anni, a volte ricordata col dolore della consapevolezza, a volte col fastidio della cronicità, del non potersene liberare, a volte come qualcosa oramai accettata, una fatalità che prima o poi accadrà, una disgrazia annunciata. Mi consegnò in un pacco di fogli tutta la storia psichiatrica della malata, come anche lui a tratti la chiamava. Ascoltò con grande attenzione il mio ripetergli che era viva ma con un futuro incerto trattandosi di un grave trauma osseo pluridstrettuale, e che dormiva sia perché era meglio non farle sentire tutto quel dolore e anche per farla respirare nella maniera migliore date le fratture costali. Mi rispose con voce incerta all'inizio, parlò in aspirazione, come quando si sta troppo in apnea e poi si prende aria, dicendomi che tornava a casa e che avrebbe chiamato l'indomani per sapere come andava. Non una piega su quei 110 metri di volo; non un guizzo di stupore di meraviglia di contentezza, solo una grande infinita stanchezza negli occhi.
Mano a mano che il giorno si avvicinava ed il reparto si riempiva delle solite figure restai un pò a leggere la storia della paziente, perché é quella che poi a volte ti porta lì da noi.
Il sonno della ragione era iniziato per lei 2 anni prima in un'altra rianimazione cittadina dove l'avevano tirata fuori da un coma farmacologico dovuto all'aver inghiottito centinaia di compresse tra sedativi ipnotici ed ansiolitici. Leggendo la lista interminabiile di sostanze faceva pensare ad una vera bulimia farmacologica, una cannibale del farmaco. Alla ricerca di un sonno eterno ne aveva divorate centinaia. Salva.
Un anno prima c'era quasi riuscita a far passare tutti per vampiri tagliandosi le vene sino a non avere quasi più un globulo rosso in circolo, tutti persi lì fuori nel rosso acqua della vasca. Altri in un'altra rianimazione l'avevano tirata fuori anche da questo. Salva.
Oggi, dopo 100 metri di volo, i rami e le fronde di un ulivo centenario l'avevano fatta rimbalzare tra loro come braccia, fermandone la caduta.
Era salva per la terza volta. Forse ora sarebbe stato per lei più facile vivere che avvelenarsi dissanguarsi sfracellarsi con tutto il dolore che ne segue. Ma lei neanche se ne accorse. Di essere una "miracolata".
Quando si svegliò per lei l' incubo fu ritrovarsi ancora tra noi.

Ho pensato spesso a quel volo. Andando altrove, sono passato anche da quel ponte e mi sono fermato per guardare giù e vedere che effetto faceva, ma la paura che mi ha preso non mi ha fatto ben intravedere il fondo in quel sotto infinito e apnoico. So di certo che lei sapeva da dove cadeva e che ne sarebbe morta. La sua mente avrà urlato per la paura mentre divorava l'altezza, come un'acuto stridore di freni e gomme sull'asfalto , o avrà avuto una splendida ma rapida sensazione di volo di libertà dalla sua realtà insopportabile? Alcuni per la paura, accortisi troppo tardi dell' ineluttabilità del gesto compiuto , e dell'altezza, in sintesi certi di morirne fanno l'arresto cardiaco in volo. Con una mossa difensiva la paura li preserva facendoli morire prima di sentire e vedere com'é sfracellarsi. Funamboli. Non so, ma a me i suicidi non piacciono; forse perchè lo sento come un atto aggressivo compiuto anche verso chi rimane oltre che contro se stessi, o forse solo perchè i suicidi pongono domande scomode alle quali a volte non saprei cosa rispondere. 110 metri di delirio o di desiderio ancora un volta inappagato?
 
 
 
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