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A questo punto il medico
cardiologo che è stato chiamato in causa dai rianimatori per le richieste di
intervento giudicate inutili,
spiega il motivo per cui spesso si chiama il rianimatore in Cardiologia.
Dice: é per farci una ragione della morte, del perché, e poi è giusto
dare una chance. Spesso quella chance è solo una frase prima di morire “Dottore,
ho bevuto un bicchiere di latte”, perché la morte è rimandata per poco.
Ma voi Rianimatori che parlate sempre di morte, ve li ponete questi
problemi? Noi ci confrontiamo su quei cinque minuti di follia di vita ed io, mi
domando, se li vorrei questi cinque minuti. Noi li vorremmo?
Penso che l’identificarsi sia destabilizzante e che può portare a scelte
sbagliate. Noi vivi che ci occupiamo dei morti… La medicina
compassionevole ci può portare a
dire “quel paziente non è più una persona! Io non voglio finire così! È meglio
che muoia, non può rimanere qui tutta la vita! Questa non è vita! ”…. Ma poi vi
ricordo che, come si è detto prima, su 152 pazienti solo due sono stati decisi
di fronte alla morte, gli altri hanno cambiato atteggiamento di fronte alla
loro morte.
Anche il chirurgo, che spesso si è ritrovato in scelte difficili,
interviene dicendo che non si può ricondurre il tutto a un solo caso.
Anche a me è capitato che, per tanti malati (soprattutto ricordo quei
settici plurioperati) che non “ ce l’hanno fatta”, c’è ne uno che “poi si
pettinava allo specchio”. La
scelta umana è difficile ma non ci si può sottrarre allo scegliere, questo
m’irrita. Forse in certi casi si potrebbe anche mettere solo maschera, la
fleboclisi e non intubare, fare meno e progressivamente convincersi e
convincere che non vi è nulla da fare.
LA POSSIBILITA’ DELLA MORTE A CASA
A questo punto dell’incontro prevale poi il senso di solitudine che il
rianimatore ha sempre con sé, e uno di noi rianimatori riprende il discorso sul
suo sentire.
Forse la condivisione ti aiuta. Si può condividere con l’equipe, i
familiari, ma poi… li porti lo stesso a casa questi pazienti e le loro storie.
Molti pensano che i rianimatori siano distanti da questi problemi, che siano
abituati alla morte, ma non si può dimenticare come morirà quel paziente. A casa farà una morte orribile, in
ascensore, nelle scale. E’ una scelta eroica portar via questi pazienti
dall’Ospedale a casa. NON SONO PIU’ NELLA LORO CASA, sono con noi!
Uno di noi medici, che vive altre realtà oltre a quella ospedaliera, e
offre la sua assistenza a casa ai malati oncologici terminali, afferma che la
condivisione di una scelta, come il morire a casa e non essere portati a morire
in ospedale, dipende anche da un assetto che consente la condivisione. La
Terapia Intensiva riduce quest’assetto, la porta che divide, la famiglia fuori.
E’ molto diverso condividere con la famiglia dentro, come quando a casa si
seguono i malati di cancro terminali con le cure palliative, vi è, infatti, un
percorso di cura tra malato, famiglia, curante che porta a scelte di solito
consapevoli. I palliativisti si sentono soli in questo, si pongono problemi su
condizioni estreme che la società impreparata non vuole affrontare.
E alla fine dice: Ma insomma, si vorrebbe delegare anche il problema
morale agli altri, alla legge. La legge serve solo per scappare dal problema,
bisogna trovare un sistema per entrare dentro questa società che rimuove!!!
Chi tra di noi non cura giorno per giorno malati critici ma vive questa
realtà ospedaliera attraverso “gli occhi sociali” e ci ha silenziosamente
ascoltato, crede che forse per evitare questa rimozione sarebbe necessario
prendere più in considerazione le storie di vita per poter parlare di questi
problemi e interiorizzare il
valore della vita stessa.
Dice, bisognerebbe occuparsi della fine della vita attraverso le storie,
parlarne in famiglia e invece tutto è sommerso, in continui rimandi. Per
scaramanzia si evita di parlare di morte o si pensa “…se faccio testamento,
muoio”.
Volendo poi passare dal particolare all’universale, vedo, che
l’Ostetricia è l’inizio della persona e la Terapia Intensiva è la fine della
persona. Oppure…. potrebbe non
esserlo, potrebbe anche essere una tappa per accompagnare la persona verso il
suo esito.
E’ diverso dire: presa in carico o presa in scarico, e rilanciare il
paziente da un medico all’altro per scaricarsi la responsabilità. Ma gli
italiani hanno sempre bisogno di una legge per decongestionarsi la
responsabilità, per saper se hanno agito bene o male secondo la legge.
Ma io penso poi che, parlando di fine vita, ci si occupa anche dei vivi
e dei nodi assistenziali irrisolti, come il gran numero di senza speranza che
affollano le nostre Terapie Intensive e la mancanza di posti letto per i vivi.
QUANTO SI PUO’ TOLLERARE LA
MORTE?
L’intensivista ha una resistenza immensa alla fatica, notti e notti, ore
e ore in piedi accanto ai malati, ma forse c’è un limite. Così interviene uno
degli intensivisti più giovani presenti, dicendo:
ma io non me la sento in Terapia Intensiva di accompagnare alla morte.
Noi lo facciamo malamente. Vedo lì quei pazienti terminali giorno dopo
giorno, il problema è lì giorno dopo giorno. Non lo sopporto. Forse per
carattere o per l’età più giovane della vostra, devo avere la sensazione di
fare qualcosa, se non posso fare, mi sento male.,. Quando sono davanti a quei
pazienti con dietro tutto quell’inutile “albero di natale” di flebo, pompe,
attrezzature… e non c’è niente da fare, DEVO CHIUDERE.
Non c’è niente da fare ed è morto con tutto il suo albero di natale.
L’abbiamo frantumato… ho fatto una cosa orribile… questo morire non è migliore
del morire in ascensore.
Il collega psichiatra che da anni è abituato ad ascoltarci evidenzia
attraverso delle domande un altro punto fondamentale:
Ci dobbiamo chiedere, quanto gli operatori, che sono un elemento, un
fattore fondamentale nelle decisioni del fine vita, possano tollerare e quali
strumenti abbiano per tollerare tutto questo. E ancora quanto possano
sopportare anche l’idea di sbagliare nella scelta.
La metodologia fondamentale per affrontare il problema è la
rivalutazione in gruppo degli operati. La possibilità di narrare è un modo per
funzionare, il raccontare le difficoltà arricchisce, diventa funzionale per
tutti. Si narra e si ascolta la difficoltà dell’altro, non vedendola solo
secondo il nostro punto di vista o secondo la logica, ma assecondando gli affetti
che vengono espressi nel raccontare.
E’ necessario per tollerare
riprendere il contatto emotivo con ciò che facciamo nel lavoro, produrre
narrazioni, riflessioni su ciò che facciamo, e su come viene maturata la
decisione.
E ALLORA PRATICAMENTE?
Vanno bene le riflessioni, ma poi prevale il senso pratico di chi, poi, è
costretto a decidere. E nuovamente il rianimatore, che non si accontenta,
interviene:
Ci dovrebbe essere anche un risvolto pratico in tutto questo nostro
pensare e riflettere in una riunione. Si dovrebbe trovare un modo per allargare
la discussione e coinvolgere i protagonisti “del fine vita” in Ospedale, senza
ritrovarsi le “facce di sempre”.
Riprende e così conclude chi è abituato ad ascoltare da anni noi
intensivisti.
Ci sono due tipi di riunioni, quelle che servono alle persone e quelle
che servono per fare proposte. In queste ultime è necessario che vi sia un
riconoscimento, altrimenti subentra il senso di frustrazione del “tanto non c’è
niente da fare”.
La riunione per maturare è una cosa utile alla crescita di sé e del
gruppo, ed è una premessa indispensabile per un’espressione all’esterno del
gruppo. Diversa è la riunione per produrre cose all’esterno che servano per
fare pressione in una società, il nostro augurio è che questo incontro sia la
premessa per poterlo fare.
FINE DELLA RIUNIONE
BUONI STUZZICHICHINI PER TUTTI NOI PARTECIPANTI
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