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Ogni Paziente Racconta La Sua Storia. L’Arte della Diagnosi.

  Titolo: Ogni Paziente Racconta La Sua Storia. L’Arte della Diagnosi. Autore: Lisa Sanders Anno/Editore: 2009 Einuaudi Editore Pagine: 336 Collana: Stile libero Extra ISBN: 9788806199753 Allegato: Scarica Allegato

Caso letterario negli Usa, "Ogni Paziente Racconta la Sua Storia" di Lisa Sanders, fa discutere anche in Italia.
«La ragazza era ricoverata da due giorni nel reparto di terapia intensiva del Nassau University Medical Center; era stata visitata da decine di medici e sottoposta a un’infinità di esami clinici ma nessuno pareva avere la minima idea di che cosa la stesse uccidendo.(…) Talvolta, se ce la metti tutta per mantenere in vita un paziente il corpo è in grado di sopravvivere anche a una malattia molto grave. Sono i miracoli consentiti dai progressi tecnologici. Talvolta, ma non in questo caso. I medici avevano praticato a Crystal una trasfusione dopo l’altra; avevano fatto del loro meglio per rinforzare il suo sistema di coagulazione danneggiato; le avevano somministrato farmaci per alzare la pressione sanguigna e fluidi per aiutare i reni, nonché diversi antibiotici ad ampio spettro.  Eppure niente aveva funzionato. Quello che le serviva era una diagnosi. Crystal stava morendo per la mancanza di una diagnosi». Quella di Crystal è una storia vera e fa parte di una serie di clamorosi casi clinici descritti da Lisa Sanders in “Ogni Paziente Racconta la Sua Storia” (Einaudi), un’avvincente inchiesta che ricostruisce – con la competenza di un’autorità nel campo dell’«arte di fare diagnosi» (la Sanders è medico internista alla Yale university) – il percorso “investigativo” seguito dai medici per salvare la vita ai loro pazienti. «Benché raramente osservato e descritto», scrive la Sanders, la diagnosi è il «vero cardine della medicina e spesso risulta la componente più difficile e importante dell’operato di un medico». Prendendo spunto da queste parole, left ha chiesto il parere del ginecologo dell’università di Bologna, Carlo Flamigni, e della psichiatra e psicoterapeuta Luana Testa, dirigente Asl RomaD. «La diagnosi è lo strumento fondamentale per poter dire che si fa medicina. Altrimenti siamo nel campo dell’empirismo», osserva Flamigni. «Non si possono curare i pazienti se non si è fatta la diagnosi. Ma, ad esempio, somministrare dei farmaci senza sapere perché, sulla base di abitudini, è il grande difetto di una parte discreta della medicina moderna». A livello mondiale è clamoroso il caso del Prozac, psicofarmaco più dannoso che inutile. Mentre, per rimanere in Italia, come non ricordare che venti anni fa, con Duilio Poggiolini al ministero della Sanità e responsabile del servizio farmaceutico, il secondo medicinale più venduto era il Cronassial, che veniva dato per i disturbi nervosi, salvo poi scoprire (molto poi) che non serviva a nulla. «Nel mio mestiere – prosegue il ginecologo – ci sono dieci differenti cure per prevenire l’aborto ripetuto ma nessuna è mai stata considerata utile e non c’è nemmeno uno straccio d’indagine clinica valida a dire che fanno bene». Flamigni sottolinea poi un altro aspetto: «Gli strumenti tecnologici per arrivare alla diagnosi migliorano tutti i giorni e sono sempre più complessi. Ma forse proprio per l’eccesso di complessità la “cura” nel fare una diagnosi approfondita è sempre più povera. E questa piattezza è uno dei seri problemi della medicina moderna». Il progresso tecnologico va dunque sfruttato meglio ma quanto conta il rapporto col paziente per fare una buona diagnosi? Quanto è utile al medico raccogliere l’anamnesi e capire cosa c’è dietro i sintomi? Secondo Flamigni, dipende dal modello di medicina al quale ci si deve ispirare. «Oggi il modello prevalente, che io considero pestifero, è di tipo contrattuale. Ce ne sono di molto più nobili, come quelli che valorizzano la capacità di ascolto, la voglia di spiegarsi, l’intelligenza nel capire cosa sia il dono della responsabilità quando un paziente si mette nelle tue mani. Il resto è cultura, sensibilità, intuizione, esperienza. Ma la somma di tutto questo è il tempo da dedicare al paziente. Se un medico guarda l’orologio, io personalmente lo lascio». Il dibattito sull’ “arte di fare diagnosi” è particolarmente acceso in ambito medico psichiatrico. Pesa come una zavorra la “cultura” che si è formata in seguito al successo del Dsm, il Manuale americano sui disturbi mentali. Questo nonostante autorevoli esperti, la cui firma compare su quel testo, abbiano ammesso che studiando sul Dsm IV, la psichiatria ha perso la capacità di stare in rapporto col paziente e quindi, facendo diagnosi solo sui sintomi (alcuni sintomi), è molto alto il rischio di commettere errori. «Devo dire purtroppo che questo è molto vero», nota Luana Testa che si è formata sulla base della Teoria della nascita formulata nel 1970 dallo psichiatra Massimo Fagioli. «La cultura psichiatrica – prosegue Testa – è molto cambiata negli ultimi trent’anni. L’introduzione del Dsm ha spostato l’attenzione fondamentalmente su aspetti coscienti e comportamentali del paziente. A volte solo in medicina e chirurgia d’urgenza si può rispondere correggendo i singoli parametri alterati. Ma se il paziente ha un’emorragia non basta fermarla, perché se non capisci la causa quella si riforma e lui muore». E invece, nota la psichiatra, «è importante capire, ad esempio, se il paziente è ansioso, che tipo di ansia è. Perché è la diagnosi esatta a determinare l’approccio terapeutico. Bisogna essere dei bravi clinici, conoscere bene la psicopatologia». Ma non è sufficiente. «Si deve scoprire il latente, ciò che il paziente non dice. E qui nasce il problema della formazione». Vale a dire? «Non basta avere una buona formazione universitaria e professionale», spiega Testa evidenziando uno dei cardini della prassi psicoterapeutica svolta da Fagioli con l’Analisi collettiva. «Per avere quella sensibilità che permetta di scoprire ciò che è latente serve anzitutto una formazione umana. Ma per effettuare una diagnosi precisa scoprendo una dimensione latente serve anche una conoscenza della fisiologia della mente che non è fisiologia del sistema nervoso centrale. E questo tipo di formazione non la dà nessun corso universitario». In pratica, chi ha una visione biologica del disturbo ed è un buon clinico può anche fare una corretta diagnosi clinica ma non conoscendo le dinamiche umane che sono alla base di un’alterazione psicopatologica non può intuire o prevederne lo sviluppo e quindi sbagliare soprattutto la prognosi. « Ciò che sicuramente non è possibile a chi ha un approccio biologico – osserva Luana Testa – è curare con l’obiettivo di guarire. Questo è l’obiettivo che tutti i medici dovrebbero avere, anche se poi la “guarigione” può essere a vari livelli ». Ormai è ben noto anche a chi ha l’approccio biologico che gli psicofarmaci non guariscono. «Se non si fa un lavoro psicoterapeutico, interrompendo la terapia farmacologica i sintomi tornano tali e quali. Ora va tanto di moda la terapia integrata, cioè farmaci e psicoterapia ma in questo caso la psicoterapia è vista in funzione della terapia farmacologica, un supporto per una maggior adesione del paziente alla terapia biologica. In realtà – conclude – i farmaci possono essere necessari più come mezzo per arrivare al paziente: se di fronte ho qualcuno con un livello d’angoscia così elevato da non riuscire a tenerlo in un rapporto, il farmaco aiuta ma senza una psicoterapia non si possono ottenere cambiamenti stabili».
L’Autrice:
Lisa Sanders è medico internista alla facoltà di Medicina della Yale University School. Tiene da anni una seguitissima rubrica mensile di medicina, Diagnosis sul «New York Times Magazine». Vive a New Haven, Connecticut.

Fonti:
-da left 5/2010 ; http://www.avvenimentionline.it/
-dal Sito Einaudi Editore
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Aggiornato al: 11 Aprile 2011

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