Spazio e Tempo in Terapia Intensiva
Affrettati lentamente

M.F.Sapuppo
 


Nel 1997 al nostro primo incontro interdisciplinare Diego Bongiorno, Medico Psichiatra che collabora con la nostra UO da allora, dopo averci osservato al lavoro per mesi ci propone una lettura delle riflessioni sul tempo dalle “Confessioni” di Sant’Agostino…
Il Tempo in Terapia Intensiva

Diego Bongiorno
Psichiatria collegamento (AUSL 6 Palermo)

M.Francesca Sapuppo
II Rianimazione (ARNAS Ospedale Civico Palermo)

Pesaro 18-20 Ottobre 2006 Meeting Giviti rintracciabile al sito: http://www.giviti.marionegri.it/Meeting2006.asp

“SPAZIO E TEMPO NON LI PERCEPIAMO DI PER SÉ, COME GLI OGGETTI, MA LI PERCEPIAMO CON GLI OGGETTI… SPAZIO E TEMPO SONO REALI PER NOI IN QUANTO SI RIEMPIONO DI CONTENUTI” (K. Jasper 1959) GRUPPO DI LAVORO MULTIDISCIPLINARE
Diego Bongiorno - Psichiatria collegamento (AUSL 6 Palermo)
Stefano Dell’Aera - Ser.T. Enna (AUSL 4 Enna)
Marcello Vasta - Scienza della Costruzioni (Facoltà di Architettura, Università di Chieti)
Maurizio Crispi - Educazione alla Salute (DS 13 AUSL 6 Palermo)
Maria Fobert Veutro - Sociologia (Dip. Studi Politici Catania- Università Kore di Enna)
Serafina Ardizzone - II Rianimazione (ARNAS Ospedale Civico Palermo)
M.Francesca Sapuppo - II Rianimazione (ARNAS Ospedale Civico Palermo)


PRIMA PARTE
Nel 1997 al nostro primo incontro interdisciplinare Diego Bongiorno, Medico Psichiatra che collabora con la nostra UO da allora, dopo averci osservato al lavoro per mesi ci propone una lettura delle riflessioni sul tempo dalle “Confessioni” di Sant’Agostino…
Pur essendo preparati a molte emergenze vi lascio solo immaginare lo sbigottimento generale.
Dopo la lettura una sua sola domanda: “nel vostro lavoro potete decelerare?”
Ovviamente la nostra risposta immediata e corale fu: “no”
Subito dopo il silenzio, la perplessità, la crisi ed allora nasce una domanda a noi stessi: “perché non riusciamo a decelerare anche quando ne abbiamo la possibilità?”
Da questa considerazione è nata la ricerca sul “Tempo e la storia in Terapia Intensiva”, ricerca in continuo sviluppo che ha coinvolto fino ad ora Intensivisti, Psichiatri, Sociologi, Matematici e che speriamo di potere arricchire con altre figure professionali.
Abbiamo deciso di indagare, all’interno di una serie di incontri, inizialmente il processo che sta alla base della formazione dei concetti di tempo e di storia da parte degli Intensivisti nella specifica realtà della Terapia Intensiva (TI), e quali sono i fattori cognitivi, affettivi, ambientali, culturali, professionali che ne possono influenzare la categorizzazione.
Successivamente abbiamo coinvolto i Matematici, abbiamo voluto attraversare i saperi, cercando assonanze ed analogie in un'altra parte delle Scienze. Questo nostro agire non è stato dettato dalla volontà di ridurre a valori numerici la complessità della realtà osservata ma è stato dettato al contrario dalla volontà di moltiplicare i linguaggi, gli strumenti, i metodi per aumentare la ricchezza interpretativa dello studio (vedi seconda parte).
Da questa lunga ricerca, di cui vi esporrò solo una piccola parte, ne è venuta fuori una riflessione interessante la cui utilità non è solo speculativa, ma ci permette di comprendere il nostro funzionamento mentale ed i comportamenti, quali ad esempio ritornando alla domanda iniziale: quale è il motivo per cui a volte non riusciamo a decelerare? Cosa è utile e cosa è dannoso della nostra accelerazione?

Poiché la nostra percezione del tempo dentro la TI istintivamente ci appariva diversa rispetto a fuori, tanto da avere a volte la sensazione di perdere il contatto con la realtà temporale, siamo allora partiti da una prima domanda, quasi per stabilire una definizione dell’oggetto di studio:
-E allora esiste il tempo cronologico in una Terapia Intensiva?- Che possa esserci un tempo cronologico “lineare” dentro la nostra Rianimazione è una possibilità, dimostrabile attraverso l’alternarsi delle persone/figure di guardia (Medici, Infermieri, Ausiliari).
Che il tempo cronologico possa essere dimostrato, come accade nel mondo reale, dall’alternarsi del ritmo solare o sonno/veglia è difficile, perché nella mia Rianimazione non ci sono finestre, le luci devono rimanere sempre accese, il lavoro è molto simile a tutte le ore del giorno, i pazienti non hanno un ritmo sonno/veglia perché spesso sono in coma “patologico” o “farmacologico” e quando sono “svegli” si adattano a dormire “quando è possibile”.
Andrea Moretti*, un giovane paziente passato/ricoverato come politraumatizzato in una Terapia Intensiva da sveglio (*Vincitore XVIII Premio Pieve. Miglior Diario dell’anno 2002), nel suo diario di bordo annotava: “…Le ventiquattro ore, in Rianimazione, non sono un giorno, sono IL GIORNO. Tanti giorni in Rianimazione non li vivi in sequenza come nella vita reale, ma come un grande, unico, IMMENSO GIORNO…”
-Quale è allora la nostra relazione con il tempo cronologico in una Terapia Intensiva? Cosa ci permette di metterci in contatto con il tempo cronologico?-
E’ il nostro CORPO che ci mette in contatto, perché ha un prima ed un dopo. Esistono biologicamente due momenti la vita e poi la morte che non permette di ritornare indietro e che ci fa percepire il vettore del tempo come verso un’unica direzione.
Ma anche qui la Rianimazione ha “creato” un momento inesistente al di fuori di essa nel mondo reale: la non vita o la non morte mediante la tecnologia. Qui “da noi” la morte può avvenire in un attimo o la si può prolungare per troppo dilatando un processo di morte già avviato (pensate ai lungodegenti neurolesi) e si può addirittura produrre qualcosa che non ha equivalenti in natura, un’apparente contraddizione: “il cadavere a cuore battente”…
Tutto questo scientificamente accettabile, umanamente stravolge: il processo di morte arrestato o sospeso ci fa entrare in una dimensione (emotiva) in cui la direzione del nostro vettore interno del tempo non è più congrua con quella del tempo cronologico.
Il tempo si ferma, rimane sospeso e noi? Per noi è necessario rimetterlo in moto, per ridurre il nostro disagio; quante volte, rivedendo lo stesso paziente per giorni, per mesi in coma e senza speranza, alla sua morte avete provato una sensazione ambivalente di dispiacere e di sollievo?
-Ed allora posso ancora parlare di tempo?-
Ebbene sì, perché gli esiti del mio lavoro dipendono proprio dalla mia capacità di percepire il tempo. Io mi chiamo Intesivista proprio perché percepisco il tempo clinico in modo diverso. Io non ho a volte il tempo di riflettere, agisco nell’attimo stesso dell’evento acuto. Io, spesso, non posso rimandare le mie scelte e le mie decisioni. E questo è “il tempo dell’azione terapeutica”, dove predomina il fare, spesso in una crescente accelerazione.
Ma poi, come tutti noi, non sono solo un Intensivista ed ho bisogno di un tempo ed uno spazio di riflessione e di elaborazione delle esperienze. E’ questo il “tempo degli affetti”, dove allora il tempo decelera e si può anche riattraversare, rivisitando gli accadimenti attraverso la memoria, ed il tempo si trasforma in un tempo interno “appartenente a sé” e può diventare storia, la nostra storia.
Allora il tempo in TI potrebbe essere meglio definito, al di la della sua unità di misura lineare, come una dimensione di spazio da riempire con una storia?
La prima considerazione è che gli eventi che si manifestano in una Rianimazione (la cura di un paziente, la sua morte, il dialogo con i suoi parenti, il suo coma e il suo risveglio…..) possono essere considerati come unici perché non sono ripetibili, perché ogni storia di cura ha una sua risoluzione, perchè anche “il noi” coinvolto in quell’ evento è diverso in ogni momento. Ovviamente apparentemente molti eventi si somigliano dato che tanti pazienti sono molto simili per tipologia clinica e le giornate in TI si susseguono con la loro uguale seppur diversa ripetitività.
Gli eventi, se considerati rispetto al tempo cronologico“lineare”, hanno sempre una estensione temporale limitata (come i segmenti rispetto ad una retta) ed alcuni eventi della nostra vita professionale rispetto al tempo cronologico “lineare” possono apparire addirittura quasi segmenti puntiformi.
Ripensate, ad esempio, a quando nella vostra vita professionale avete visto entrare improvvisa la morte in un giovane sano, nel quotidiano di quella famiglia, e siete voi dopo pochi minuti o poche ore a comunicarne la morte ai genitori.
Il tempo cronologico “lineare” (trattamento a rapido esito infausto, comunicazione) è brevissimo (minuti, ore), “quasi niente” rispetto all’estensione del nostro tempo della professione, ma dall’incontro dell’Operatore con queste esperienze e dalla sua interazione riverberano pensieri, emozioni, sentimenti più o meno espliciti che si prolungano in noi ben al di la dell’esperienza stessa.
Se consideriamo, quindi, l’estensione di questo breve episodio nello spazio del nostro tempo interno può essere a volte addirittura incontenibile. Il segno lasciato è profondo ed i nostri pensieri possono ritornare all’evento, attraverso il ricordo, per giorni e giorni.
Gli eventi esperiti interagiscono e incidono in noi il loro segno diversamente. Gli avvenimenti diventano per noi più o meno significativi o addirittura travolgenti, quanto più è la donazione di senso che noi vi attribuiamo consapevolmente o inconsapevolmente. Come dice I.Calvino gli avvenimenti esterni, anche i più banali, divengono “messaggi decisivi” (significativi) per ciò che ci accade dentro (per il senso che noi vi attribuiamo), e ciò che accade dentro di noi è diverso per ognuno di noi.
Ripensate, ad esempio, a due di noi che ascoltano le parole di un collega, di un paziente, di un parente e a quante diverse interpretazioni e significati noi possiamo dare a quelle stesse parole dette: in uno possono produrre rabbia nell’altro indifferenza.
Allora accanto al tempo cronologico “lineare” del lavoro bisogna considerare l’estensione spaziale, che da esso si distacca e lo ingloba, del tempo vissuto. E come spiegarlo?
Forse, facendo un primo approfondimento a partire dall’evento della morte improvvisa descritta precedentemente, si potrebbe dire che nel vivere gli eventi vi è un tempo pieno ed un tempo apparentemente vuoto paragonabile al continuum di un’onda.
Un tempo agito ed anche agitato, pieno di azione (monitoraggio, osservazione, diagnosi, trattamento, sala operatoria…affrontare i familiari ed il loro incontro con la morte improvvisa), un tempo che riempie di energia operativa l’apice dell’onda e a cui segue un tempo apparentemente vuoto dopo quella morte, silenzioso (chiusura di cartella per i Medici, ricomposizione della salma per gli Infermieri). Qui si fotografano, nell’apparente meccanicismo della prassi, gli attimi precedentemente vissuti, si raccolgono e si riordinano i pensieri.
L’onda operativa apparentemente perde energia, decresce nella sua profondità, la nostra capacità di azione si riduce, c’è la sensazione dello svuotamento e da qui riparte un altro tempo, il nostro tempo interno, vissuto, nato dall’interazione con l’esperienza fatta.
Inizia l’elaborazione e la trasformazione in modo definito o sfuggente in parole, in immagini, in pensieri, in gesti della energia delle emozioni generate dagli eventi e tanto maggiore è l’energia, di cui si è riempita la nostra onda, tanto maggiore e durevole sarà la risacca di trascinamento.
Forse sarebbe ancora più facile vedere il tempo lineare “esterno” come un divenire di eventi, di cui noi al contatto facciamo esperienza, e da cui si dispiega (accanto a questa narrazione esterna) la nostra personale narrazione interna degli eventi.
Pensate a quante volte non avete potuto prendere sonno per quel film che vi si proietta dentro degli accadimenti del giorno: le parole di quel parente, la lite con il Collega, la difficoltà terapeutica… Ripensate solo per un attimo a quando smontate dopo avere passato la notte a lavoro, stanchi sempre sullo stesso malato che “vuole morire”, in un combattimento corpo a corpo con la sua morte. Il tempo dell’azione è passato, ma l’energia generata dalle emozioni è elevata e voi, che vorreste solo defaticare, a narrarvi dentro più volte il film senza riuscire a prendere sonno… durante il sogno, a narrarli ancora ai colleghi per giorni…. Gli eventi a farci gioire, arrabbiare, intristire, impaurirci.
Il tempo esterno del mondo si trasforma dentro di noi in un tempo vissuto, soggettivo (sentito e narrato) e si trasforma in storia nel conferimento di significazione e senso dati da noi agli eventi e all’esperienza (F.Batini, G. Del Sarto).
Ma allora cosa è la storia?
Allora la storia è “il tempo narrato” dentro e fuori di noi, è quella dimensione spaziale del tempo umano che accoglie ed interpreta gli eventi presenti nel momento stesso che accadono, quando gli eventi sono passati li riporta alla memoria e li reinterpreta, e poi ne immagina gli svolgimenti nel loro futuro.
Per sentire questa necessaria dimensione umana della narrazione, continuamente in funzione, basta solo pensare a noi stessi dentro il nostro lavoro: l’ immediato trattamento terapeutico sull’interpretazione di sintomi e segni e poi una morte inspiegabile. Dopo il riportare alla memoria e reinterpretare da soli e con gli altri gli accadimenti (poteva essere anche questo…come non averci pensato!) ed immaginare un diverso scenario rispetto a quello accaduto (forse potevo fare qualcosa, forse non sarebbe morto!). Ed un collega vicino, se la storia è gruppale, a smorzare attraverso un’altra narrazione possibile, perché il collega conosce come te “le storie di non ben fatto” che ci si racconta dentro.
Noi a raccontarci necessariamente le storie alle pause caffè, alle consegne, in qualsiasi luogo, al telefono ed aggiungere piccoli tratti delle nostre emozioni, sentimenti, affetti (sai era figlio unico… sai ha lasciato due bimbi…poteva essere mio figlio…).
Allora la storia è il tempo narrato. “(Il narrare), il racconto mette della consonanza là dove vi è dissonanza. In tal modo il racconto da forma a ciò che è informe” (Ricoeur). Noi attraverso la narrazione interna e sociale definita o sfuggente o fugace diamo un senso ed un significato alle cose che accadono, diamo ascolto alle nostre emozioni profonde vissute.
Allora la storia nel gruppo è il tempo narrato ed ascoltato e condiviso tra noi, fatto di “cose di Scienza” e di “cose umane” in un unico intreccio.
Ed allora ritornando alla domanda iniziale: quale è il motivo per cui a volte non riusciamo a decelerare?
La risposta forse adesso è molto più evidente.
Le forti emozioni, riverberanti dal nostro lavoro, accumulano un’energia interna che se non viene smorzata attraverso la modulazione affettiva (quella decelerazione riempita di contenuti narrativi che prendono corpo in una storia) verrà scaricata in altra maniera: il malessere, la velocità, l’irritabilità, la collera, l’attività fisica esasperata…un fare crescente per cercare di alienare le emozioni da noi, per non venire in contatto con elementi carichi di dolore.
E così un gruppo che aliena le emozioni da sé, e non è in grado di avere un tempo del metabolismo, narrato con parole, con gesti ed ogni espressione umana, ascoltato, condiviso perderà il suo benessere, non sentirà più l’uno il contatto emotivo dell’altro.
E come dice Diego:
“Il contatto emotivo ha per la nostra mente la stessa funzione che ha l'ossigeno per il nostro organismo. Quindi l'assenza di contatto emotivo è per noi l'equivalente del lavoro anaerobico”
www.timeoutintensiva.it.

SECONDA PARTE
…con i Matematici (Prof. Marcello Vasta)


Come accennato precedentemente nella prima parte, abbiamo deciso di coinvolgere nella ricerca i Matematici, abbiamo voluto attraversare i saperi, cercando assonanze ed analogie in un'altra parte delle Scienze.
Questo nostro agire non è stato dettato dalla volontà di ridurre a valori numerici la complessità della realtà osservata ma è stato dettato al contrario dalla volontà di moltiplicare i linguaggi, gli strumenti, i metodi per aumentare la ricchezza interpretativa dello studio.
Allora a tale scopo riprendiamo la domanda postaci all’inizio: il tempo in TI potrebbe essere meglio definito, al di la della sua unità di misura lineare, come una dimensione di spazio da riempire con una storia?
Se si volesse per approssimazione avvicinarsi ad una rappresentazione fisica del tempo storico in TI allora potremmo partire, per semplificare, dal considerare in un comportamento dinamico due elementi: “il noi” coinvolto negli eventi e gli eventi stessi che si svolgono con noi durante la rianimazione e la terapia intensiva o che ci circondano attraverso il racconto fatto da altri.
I due elementi, “il noi” e gli eventi vissuti o narrati, hanno una frequenza che gli è propria in quel dato momento. Nella risposta del “noi” agli eventi non è importante solo la frequenza in sé propria dei due elementi ma il rapporto che sussiste tra le due frequenze.
Quanto più le due frequenze sono tra di loro prossime tanto più è possibile la nostra consonanza con gli eventi. Nella nostra risposta, come risonanza interna a ciò che ci accade intorno (narrato o vissuto) contano le frequenze degli accadimenti prossimi alla nostra frequenza.
Ed ancora in un sistema dinamico noi a nostra volta o gli altri, inseriti in quegli eventi, possiamo smorzarne l’ampiezza e far sì che la risonanza (quando il rapporto tra le frequenze dei due elementi diventa uguale ad 1) non sia tale da provocare lesioni.
Ed è per questo che in un comportamento dinamico gli stessi eventi possono creare risposte differenti sia in diversi individui (perché gli individui hanno frequenze diverse), sia nello stesso individuo in tempi differenti, perché l’individuo ha in sé una frequenza diversa nel tempo relativo all’evento vissuto nell’attimo che accade e nel tempo relativo all’evento vissuto nella memoria.

APPENDICE

La storia naturale
Ma allora cosa è la storia, questa necessità biologica che coinvolge qualsiasi materia vivente?
Sì perché la storia è una necessità della vita.
In natura, infatti, l’esistenza diventa vita solo per la storia che ci si costruisce dentro, qualsiasi materia inorganica ed organica “esistente” (zuccheri, proteine…) può divenire “vivente”, solo in presenza di una storia inscritta dentro un DNA.
Il DNA come storia genetica: memoria di un prima trasmesso da un progenitore e possibilità di un dopo trasmissibile alla progenie

ALBERT EINSTEIN 1926 “Più un concetto è universale e più frequentemente questo ricorre nel nostro pensiero, e più indiretta è la sua relazione con l’esperienza sensoriale, tanto più difficile è comprenderne il significato; questo è specificamente il caso dei concetti pre-scientifici che sono stati adottati fin dall’infanzia.
Consideriamo i concetti riferiti alle parole "dove", "quando", "perché", "essere", al chiarimento dei quali sono stati dedicati innumerevoli volumi di filosofia. Non siamo meglio, nelle nostre speculazioni, di un pesce che si sforza di comprendere cosa sia l’acqua."


 
tratto dal numero 14