Tempo e Medicina Intensiva��MEZZO SECONDO PER INTUBARE�ovveromezzo secondo alla consapevolezza.
di M.Francesca Sapuppo*, Diego Bongiorno*, Serafina Ardizzone* **Stefano Dell�Aera

*Timeoutintensiva Network
***AUSL4 SerT Enna
 



NON SEMPRE POSSIAMO PORCI DOMANDE “SENSATE”
“�.per l’idee che all’inizio non sembrano strane non c’è speranza”
N.Bohr

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Ci sono storie che noi costruiamo e ci sono storie che ci vengono incontro, il nostro lavoro di Terapia lo costruiamo giorno per giorno ma credo che per poterlo fare noi dobbiamo essere già predisposti ad accogliere la storia che ci viene incontro, dobbiamo forse essere in un certo modo per potere fare il lavoro che facciamo.
Questo lo penso oramai da molto tempo, avendo avuto a che fare con me stessa come intensivista e con colleghi più giovani e meno giovani di me.
Una delle tante qualità che mi appare determinante per poter fare il nostro lavoro (oltre quelle che analizzeremo in articoli successivi) è la capacità di utilizzare modalità di pensiero clinico diverse secondo le situazioni, modalità in cui la percezione e la gestione del tempo  interno ed esterno differisce secondo i momenti.
In un solo istante dobbiamo essere in grado di passare da una attività “immediata”, come quella che si sviluppa nella emergenza, in cui il tempo “mentale” è contratto in secondi ed apparentemente privo di un pensiero analitico ma solo pragmatico, ad una attività “riflessiva”, come quella che si sviluppa nella pianificazione di una terapia o di una procedura o nella visita clinica, in cui il tempo “mentale” è abbastanza lungo e ricco di un discorso interno che permette anche articolate analisi sia personali che con gli altri colleghi.
Passiamo da un “pensiero clinico preriflessivo” (sintomi/segni - attività terapeutica immediata) ad un “pensiero clinico riflessivo” dove c’è il tempo di riflettere su ciò che facciamo o faremo o non faremo, con infinite gradazioni di intensità tra l’una e l’altra modalità. Sono proprio poi questi momenti di riflessione quelli che ci permettono anche di attrezzarci per far fronte all’emergenze.
Raramente in altre specialità (tranne le attività chirurgiche) bisogna vivere costantemente questa doppia vita in cui il tempo assume senso e significati diversi secondo i momenti e le situazioni.
Pochi sono gli operatori sanitari che devono vivere pensando che “nella emergenza già un secondo sia troppo tardi”, e che vivono in allerta sapendo che prima o poi vivranno quel “secondo di emergenza”.
Pochi sono coloro che riescono a lavorare con questa morsa del tempo che si stringe o si dilata senza stare continuamente in uno stato di ansia o meglio di paura premonitrice.
Così mi descrisse un  mio collega più grande di me il nostro lavoro: “il nostro lavoro è come scendere scale conosciute al buio, ci vai tranquillo perché le conosci, conosci ogni minimo ostacolo � Ma non sai quando e se qualcuno dietro ad un angolo ti griderà per spaventarti:� Buuuu!!!!


“�MEZZO SECONDO PER INTUBARE”
ovvero
mezzo secondo alla consapevolezza.


Quanto vi sto per raccontare è iniziato non tanto tempo fa ed è iniziato apparentemente per una serie di fortuite coincidenze.
Come sapete, se avete letto i precedenti numeri di questa rivista, mi sono occupata insieme ad  altri del significato del tempo in Terapia Intensiva già anni fa, perché sono curiosa, perché ho la sensazione che nel mio lavoro mi manchi sempre il tempo, perché a lavoro vorrei un tempo più lento e non così “affannato”, perché come ho detto all’inizio spesso mi sento dentro due tempi e sento la necessità di averli, e poi forse per tanti altri motivi.
La voglia quindi di sapere di più sul tempo è nei miei pensieri da molto ma solo per un caso, quando sono stata in comando presso la Rianimazione degli Spedali Civili di Brescia (diretta da N.Latronico)  è successo ciò che ha dato avvio a questa particolare ricerca bibliografica.
Assistevo ed ascoltavo con interesse le consegne mattutine di questo gruppo di lavoro, dove ero ospite, quando una collega vestita come Rambo (tuta arancio, rampini, funi�) operativa al 118 racconta quanto accaduto,  nel suo raccontare con tanta normalità dice: “�mezzo secondo per intubarlo�”.  Ciò significa, per chi non lo sapesse, che si posiziona un tubo nelle vie respiratorie per potere ventilare il paziente e permettergli di respirare.  Questa  manovra, quasi automatica per chi fa l’Anestesista/Rianimatore, è una manovra che ha consentito e consente, da quando esiste, di non far morire tante persone.
“�Mezzo secondo per intubare”. Questa frase fatidica, la stessa che ho sentito dire da me e da altri Rianimatori, mi colpisce. In fondo potevo anche pensare che fosse una coincidenza, un modo di dire, un vezzo da prime donne dei Rianimatori e finirla lì, invece quel tintinnio “mezzo secondo”, unità di misura in voga tra i Rianimatori, non  mi esce più dalla testa.
Perché proprio mezzo secondo e non uno? E se fosse vero? Se fosse questa l’unità di misura del pensiero automatico? Anche perché noi Rianimatori, come vi ho detto,   spesso abbiamo la sensazione nelle emergenze di agire senza aver pensato, come se la nostra mano fosse sul tubo prima di pensare.
Il tempo “mezzo secondo” a quel punto era diventato per me, come dice Italo Calvino, un “messaggio decisivo”.
Ho iniziato una frenetica ricerca bibliografica nella vana speranza di arrivare non dico ad una soluzione ma ad una comprensione. Cercavo, quando inaspettatamente mi arriva un messaggio sul cellulare “Mind Time – B.Libet – leggi”. Era Stefano Dell’Aera, il collega Psichiatra con cui ho già scritto altri lavori, totalmente ignaro di quanto stessi cercando.
Una coincidenza? Così abbiamo iniziato la lettura e lo studio di questo libro, segnalato ai nostri lettori nel numero 7 di questa rivista on-line.

 

“MIND TIME, IL FATTORE TEMPORALE NELLA COSCIENZA”
di Benjamin Libet

In questo interessante libro Libet (ardito Neuroscienziato sperimentale  che ci ha purtroppo lasciato poco tempo fa) illustra le sue ricerche sul “tempo necessario per la consapevolezza” (vedi dopo).
Poiché non ho la pazienza di leggere introduzioni e prefazioni  (li leggo quasi sempre alla fine), la prima frase che ho incontrato, al primo capitolo “Il problema”, è stata: “Questi sentimenti (ciò che proviamo) fanno tutti parte della nostra vita interiore. Sono soggettivi nel senso che sono accessibili solo  al soggetto che li sta provando”.
La frase appena virgolettata sembra una apparente banalità, ma non lo è se ci si appresta a studiare oggettivamente la consapevolezza, fenomeno di per sé soggettivo. Infatti si può sapere se un individuo in studio ha esperienza di uno stimolo sensoriale (ne è consapevole) solo se egli ce lo riferisce. Ed allora il resoconto dell’individuo che esperisce, non essendo direttamente osservabile dal ricercatore, è una prova affidabile per uno Scienziato alla ricerca di dati oggettivi? E’ questo un problema metodologico di non poca entità. Eppure nelle relazioni sociali accettiamo senza problemi i resoconti come riflessi significativi delle esperienze soggettive e solo dopo cerchiamo di valutarne la validità. E poi il nostro mondo umano, la nostra storia di società umana, esisterebbe se non avessimo accettato i resoconti di tutti noi?
Libet, proprio per queste considerazioni sopradette, decide di usare i resoconti per le sue ricerche e di andare incontro alle critiche. Decide però di studiare esperienze molto semplici, ad esempio un semplice, unico segnale sensoriale, dove sono ridotte al massimo le connotazioni emotive (che possono produrre distorsioni di grado elevato nel resoconto) ed inoltre raccoglie molti dati incrociandoli per evitare la casualità  dei dati e poter così ottenere una rilevazione significativa (metodologia peraltro ripresa successivamente da molti Ricercatori che studiano i fenomeni della coscienza).
Tutto questo perché? Alla ricerca del sapere: “quando, in quanto tempo, diventiamo consapevoli di ciò che accade, della nostra esperienza (di quel semplice, unico segnale sensoriale somministratoci)?”
Da queste premesse, espresse nel capitolo “Il problema”, Libet parte nella sperimentazione usando ingegnose tecniche, riprese poi recentemente anche da altri Neuroscienziati, perché ha un’occasione particolare: utilizzare i resoconti introspettivi, rilevare l’attività elettrica cerebrale direttamente sul cervello e l’attività muscolare di pazienti coscienti sottoposti a neurochirurgia stereotassica  a cui  somministrava impulsi sensoriali unici e semplici, sia direttamente nella zona sensoriale della corteccia cerebrale, sia sui fasci della via di proiezione sensoriale ascendente cerebrale, sia sulla cute.

 

AGIRE SENZA PENSARE
“La civiltà avanza grazie all’aumento del numero di operazioni che possiamo compiere senza pensare” A.N. Whitehead

Per poterci addentrare  ancora dentro questo argomento bisogna innanzitutto fare una premessa: distinguere tra percepire un segnale e avere consapevolezza della sua percezione.
Quando si somministra uno stimolo sensoriale lo stimolo viene percepito a livello cerebrale (la percezione è espressa anche attraverso una notevole attività cerebrale nella corrispondente zona sensoriale) ed il soggetto in studio  ha azioni comportamentali come contrazioni muscolari e cambiamenti neurovegetativi, quali ad esempio della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa o della sudorazione, rilevabili oggettivamente dal Ricercatore.  Nonostante questa percezione a livello cerebrale e le risposte comportamentali il soggetto potrà  riferire di non avere avuto esperienza dello stimolo perché il segnale non ha raggiunto la sua consapevolezza, vi è stata solo una percezione cerebrale (vedi anche in Letteratura il fenomeno della visione cieca).
Dagli esperimenti e studi di Libet sono venute fuori alcune scoperte: 1)il nostro cervello percepisce lo stimolo circa mezzo secondo prima di noi divenire consapevoli della somministrazione dello stimolo, 2) il fenomeno della consapevolezza risulta dipendente dalla durata, lo stimolo per essere efficace (cioè essere riferito subito dopo da chi lo esperisce e non essere solo percepito-registrato dal cervello) deve avere una durata di circa 400-450msec altrimenti il soggetto non riferisce alcuna stimolazione, 3)la scoperta più sorprendente (utile per la nostra domanda iniziale) la troverete più avanti nel testo.
Se la percezione cerebrale degli stimoli sensoriali avviene 0.5 sec prima della nostra consapevolezza, ciò di cui diventiamo consapevoli (riferiamo di avere esperienza) in realtà  è accaduto circa 0,5sec prima. 
Quando noi diventiamo consapevoli ”il presente è già passato” da 0,5 sec
anche se soggettivamente abbiamo l’impressione che lo stimolo e la nostra consapevolezza avvengano nello stesso tempo (il timing soggettivo si riallinea al timing neuronale).
Se esiste questo ritardo tra percezione e consapevolezza, allora ci si può porre una domanda: il ritardo potrebbe essere utile per la modulazione soggettiva di ciò che ci accade intorno?
Il ritardo secondo Libet potrebbe fornire tante opportunità
. Tra le tante proposte da Libet vi cito la funzione di filtro per limitare le esperienze che raggiungono la nostra consapevolezza in ogni singolo istante, per evitare di essere sovraccaricati da un eccesso di dati, “dal brusio di eventi coscienti”. Ed ancora potrebbe esserci anche una opportunità psicologica, la possibilità di modulare i contenuti dell’esperienza. Durante il ritardo (timing neuronale/timing soggettivo) i percorsi cerebrali potrebbero alterare i contenuti della esperienza sensoriale avuta, questo significa che ogni persona ha la propria realtà esperita, e che tutte le modulazioni e le modifiche dell’esperienza saranno proprie della persona coinvolta e rifletteranno allora la storia personale di quella persona.
Come abbiamo accennato precedentemente la scoperta più sorprendente in queste sperimentazioni è che il processo che porta ad un’azione volontaria (“agisco adesso”) viene iniziato dal cervello (attività elettrica) circa mezzo secondo prima che il soggetto diventi consapevole della sua volontà o intenzione a compiere l’azione.
A parte le problematiche non indifferenti che vengono fuori da queste scoperte, come l’esistenza o meno del libero arbitrio, ritornando alla vita di tutti giorni facciamo un po’ di conti insieme al Neuroscienziato.
Mentre stiamo guidando a 45Km/h ci troviamo di fronte un ragazzo che attraversa la strada per rincorrere il suo pallone. Immediatamente freniamo (in circa 150msec dall’apparizione).
In base alle ricerche di Libet dall’apparizione del ragazzo (stimolo)  alla  consapevolezza della sua presenza passerebbero circa 500msec, meno di un secondo ma bastevole per falciare il ragazzo.
Invece: l’apparizione del ragazzo al tempo zero  50-60msec dopo il mio cervello “vede” la scena 100-150msec dopo l’apparizione il mio piede  (istruito dal cervello che “ha visto la scena”) frena  500msec dopo l’apparizione del ragazzo siamo consapevoli di quanto accaduto ( ed inoltre 650msec dopo siamo in grado di commentarlo).
Abbiamo agito fortunatamente in modo del tutto inconsapevole, in modo cosiddetto automatico. Pensate un po’ se dovessimo prima diventare consapevoli di una emergenza (mezzo secondo) per poi agire. Fortunatamente in questo caso l’“agire adesso” avviene prima di diventarne consapevoli.
Il corpo si rende conto della situazione di emergenza e vi pone rimedio  prima che si sia consapevoli di ciò che sta accadendo e di come si debba agire, prima di quel “fatidico” mezzo secondo� anche del “mezzo secondo per intubare”.
Recentemente i ricercatori del gruppo del Professore John-Dylan Haynes
(J-D Haynes, K Sakai, G Rees, S Gilbert, C Frith, D Passingham “Reading hidden intentions in the human brain” Current Biology, February 20th, 2007.   C S Soon, M Brass, H-J Heinze and J-D Haynes “Unconscious determinants of free decisions in the human brain. Nature Neuroscience, April 13th, 2008), riprendendo ed aggiornando le sperimentazioni di Libet con l’uso di tecniche di neuro-imaging e sofisticati computer, con le loro ricerche hanno mostrato e confermato che le decisioni sono preparate dal cervello molto tempo prima di noi diventare consapevoli della nostra decisione. Hanno mostrato che è possibile predire dai segnali cerebrali quale decisione o meglio opzione (premere liberamente un pulsante con la mano destra o sinistra) i partecipanti allo studio avrebbero scelto circa 7 secondi prima che essi prendessero la loro decisione.

 

IL LAVORO INTUITIVO
”La logica pura non produce altro che tautologie; non crea nulla di nuovo” H. Poincarrè
Quale che sia il tempo 0,5 o 7 secondi precedente al mio agire in emergenza forse adesso, dopo aver approfondito insieme l’argomento, poco importa, ed ovviamente vi rinvio anche a tutta la Letteratura più recente sui neuroni specchio per cercare altre ulteriori possibilità di comprensione al nostro mezzo secondo o alle ricerche di Damasio sulle emozioni come stati del corpo nella produzione di comportamenti automatici.
Il tentare di rispondere alla domanda iniziale apparentemente futile ci ha portato verso ben altro, a capire un po’ più del nostro funzionamento di intensivisti, a riconoscere come per noi sia determinante saper lavorare con  tempi interni diversi secondo la situazione, modificando rapidamente il nostro assetto: quasi senza un tempo interno nell’emergenza fino ad un tempo interno lungo e riflessivo, attraverso un discorso interno con sé e con gli altri, quando le situazioni cliniche ce lo permettono. 
Questo saper lavorare a più tempi dipende da come si è prima di accogliere il nostro lavoro di intensivisti e forse fortunatamente dipende anche dalla presenza di “un pensiero/attività automatici” precedente alla nostra consapevolezza di agire. Pensiero/attività che può essere sviluppata attraverso l’allenamento (come per gli sportivi) ma che non si può sviluppare se non vi è un certo tipo di “soggetto” a fare terapia intensiva?
Questa non è una domanda indifferente perché ci porta verso un ambito molto particolare della formazione nell’emergenza: lavorare sulla tecnica (come automatismo) o lavorare sull’individuo che c’è prima della tecnica o su entrambi per ottenere una attività così rapida nell’emergenza?
Ed il tipo di paziente che ci troviamo di fronte in emergenza è determinante per la nostra rapidità? A guardarci con estrema onestà dobbiamo rispondere di SI. Quante volte con la mano sul tubo ci siamo fermati di fronte ad un marasma senile? Forse, alla luce delle scoperte di Libet e Hynes tutto risiede in quel ritardo (tra timing neuronale/timing soggettivo) in cui moduliamo non solo i contenuti della nostra esperienza ma  abbiamo la possibilità di modulare anche il nostro agire.
La modulazione soggettiva dei contenuti della esperienza, attraverso il ritardo tra il timing neuronale e timing soggettivo, è un’ipotesi ardita. E’ un’ipotesi per cui durante il ritardo potrebbe entrare in gioco la componente emotiva/affettiva del soggetto, tipica di ognuno di noi.
Forse sarebbe per questo che di fronte alle stesse esperienze ciò che accade dentro di noi è diverso per ognuno di noi, fino ad arrivare addirittura alla alterazione o all’abolizione dei contenuti della esperienza stessa.
(Per altre curiosità, vedi anche il testo “Spazio e tempo in Terapia Intensiva. Affrettati lentamente” in archivio al n°3)
Approfondimenti in Timeoutintensiva:

 

MIND TIME. IL FATTORE TEMPORALE NELLA COSCIENZA.
Benjamin Libet

http://www.timeoutintensiva.it/download/mindtime.pdf


IL TEMPO IN TERAPIA INTENSIVA: “affrettati lentamente”
M.Francesca Sapuppo, Diego Bongiorno
http://www.timeoutintensiva.it/focus.php?uid=277&lingua=I


 
tratto dal numero 14