Prima tranche di discussione tra gli intervenuti al dibattito:
Fine Vita: CHI DECIDE, COME?

Curatrice della trascrizione: Francesca Sapuppo
 



www.timeoutintensiva.it, N°13, Aprile 2010, Focus


 

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Dopo l’introduzione, la prima domanda che viene posta da uno di noi, che si è fatto carico di rivedere la Letteratura Medica, (per gli approfondimenti, in questo stesso numero vedi "Riflessioni sui trattamenti di fine vita: leggendo qua e là gli atti del congresso ESICM 2007" di Serafina Ardizzone) è:


Ma è poi così vero che noi medici prestiamo attenzione alla morte dei nostri pazienti e ai loro familiari?


L’attenzione da parte dei medici è stata sicuramente posta, anche se a occuparsene, sono principalmente quei medici che, per l’attività professionale svolta, devono prendere le decisioni di fine vita.


La presenza sempre più pressante di terapie farmacologiche e tecnologiche consente forme di vita o “di non morte”, un tempo inesistenti, come ad esempio gli stati di coscienza minimi o gli stati vegetativi, che non tutti sono disposti ad attraversare, e che spesso pongono in crisi chi li ha creati, attraverso rianimazioni di cui non sempre è prevedibile l’esito, e chi li assiste. Questo ha portato serie problematiche etiche che non possono più essere ignorate, dato il continuo progresso tecnologico.


Negli anni tanti tentativi si sono fatti nei diversi paesi attraverso le società scientifiche, le legislazioni, i comitati civici e di malati per cercare di rendere meno arbitrario il momento delle decisioni di fine vita. Si è cercato quindi di stabilire a chi spettasse la scelta e come, passando da una totale delega al curante o al familiare fino in alcuni paesi a una scelta decisionale anticipata del paziente.


Essendo le realtà sociali e culturali diverse per ogni paese, non esistono solo diversi modi di sentire il problema, esistono diversi modi di affrontarlo e risolverlo. Questo non dipende solo da diverse sensibilità e culture, dipende anche dal fatto che è ancora difficile da chiarire per la società il divario esistente tra non introduzione o sospensione dei trattamenti artificiali nelle malattie terminali ed eutanasia, e ancora tra non accanimento terapeutico ed eutanasia.

LA SCELTA CONDIVISA “TI LASCIA MEGLIO DENTRO”


Dopo avere sentito una breve sintesi di ciò che potete leggere nell’articolo citato (di S.Ardizzone), il pensiero degli intensivisti, con il loro abituale sovrapporsi di voci, va subito a coloro, con cui si confrontano giornalmente, i familiari dei pazienti adulti non in grado di scegliere.


Noi lo sappiamo che loro, i familiari, sono persone fragili, portatori di tante emozioni e sentimenti…, la paura della morte del loro congiunto, il distacco, il non potere fare nulla in questi momenti…., ma le emozioni sono tanto forti che la mentalità del medico può diventare quella di difendersi dal parente. Eppure sicuramente il medico si sente più soddisfatto quando lo coinvolge e la decisione è posta insieme al familiare.


Per un curante, come si è già detto, la scelta condivisa con se stessi, il gruppo di lavoro, con il paziente e/o con i familiari è emotivamente più facile, “ti lascia meglio dentro”. Per poterla fare però è necessario un tempo, un tempo in cui si raccolgono, si ricevono informazioni sullo stile di vita, volontà, desideri di chi è arrivato alla fine della vita.


E’ un tempo in cui la comunicazione non è solo un compito compassionevole ma un momento cruciale con un flusso d’informazioni reciproco, per scegliere insieme. E poi, è necessario un tempo anche per il curante per accogliere le istanze e farle proprie, perché  è necessario anche per chi cura che queste istanze arrivino ad essere in sintonia con se stessi.


E allora necessario ridurre le barriere alla comunicazione, aprendo le porte delle nostre Terapie Intensive per conoscere, attraverso i familiari, la persona che sta dentro quel paziente, se questi è senza coscienza o tanto grave da “non esserci”.

LA FINE FUORI DALLA TERAPIA INTENSIVA


A questo punto alcuni di noi medici, che lavorano dentro e fuori la Terapia Intensiva e che spesso sono chiamati in Pronto Soccorso, si lamentano ed intervengono.


...Parliamo sempre di Terapie Intensive, come se la vita potesse finire solo lì, e invece questo problema riguarda tutti i medici.


Spesso i medici del Pronto Soccorso chiamano noi, intensivisti, solo per chiedere aiuto, per mettere fine, per sancire la fine della vita. Chiamano in fondo solo per parlare con il parente. E il parente, impreparato, attende il rianimatore e rimane sorpreso della morte, del nostro dire “niente da poter fare”.


Forse che siamo più esperti, noi intensivisti, nel dire fine, nel dire basta?


A volte, come rianimatori, si ha la sensazione di essere chiamati al Pronto Soccorso solo per essere coinvolti da un punto di vista legale. E’ molto diverso andare al Pronto Soccorso quando non hai questa sensazione, arrivi in Area d’Emergenza e ti senti come se fossi alla prima mano di carte…giochi fino in fondo le possibilità che ci sono, inizi a trattare e vedi se il malato ha ancora possibilità di “farcela”.


E poi è vero, le conoscenze, le esperienze ti cambiano il modo di andare e fare al Pronto Soccorso. Vedete che è coraggioso chiudere subito, scegliere al Pronto Soccorso di non fare nulla per quel paziente già al suo termine. Si finge con se stessi per prendere coraggio.

FUORI DALLA TERAPIA INTENSIVA SI E’ PREPARATI ALLA MORTE?


Forse certi pazienti terminali non dovrebbero neanche arrivare al Pronto Soccorso. I medici di base dovrebbero preparare alla morte i familiari di questi malati, e farli morire nella loro casa, ma forse sono anche alcuni medici stessi impreparati ad affrontarla.


Può essere...che il medico del Pronto Soccorso cerchi con il rianimatore una condivisione che rafforza, ma forse si tratta solo di non volere prendere una decisione, o forse c’è anche una paura di sequele medicolegali. Nonostante ciò, bisogna però anche dire che i familiari oramai chiedono l’impossibile: la nutrizione nel paziente agonico, l’intubazione e ventilazione in un tumore che ha compromesso tutto il polmone….


Viene allora naturale porsi la domanda di fronte a queste richieste, se è la paura di affrontare la realtà della morte o l’informazione mediatica spinta che porta a tutto questo, o se è anche il medico curante che nel tempo non ha fatto con loro una preparazione alla morte.


La realtà è che c’è poca formazione sulla terminalità e sui limiti terapeutici nella terminalità anche tra noi medici, e questo fa sì che i parenti rimangano confusi, e da qui la loro “richiesta dell’impossibile”.


“Forse anche noi rianimatori dovremmo fare la nostra parte, cercare di portarci fuori, nelle televisioni…  descrivere i nostri limiti, perché oramai ogni cosa sembra semplice: interventi chirurgici tutti possibili, semplici, senza complicanze, ed invece….”

PER UN’ETICA CONDIVISA


Tutti abbiamo ascoltato in silenzio le difficoltà di chi opera al Pronto Soccorso ma uno di noi dubita sulla possibilità della condivisione.


E’ difficile oggettivare il comportamento dei diversi attori nella terminalità. Credete si possa ottenere la condivisione? Ogni operatore ha il suo modo di pensare, una sensibilità diversa, e poi i familiari al Pronto Soccorso forse sono troppo confusi perché capiscano le decisioni da prendere insieme.


Il collega psichiatra risponde a questo dubbio con una possibilità e una domanda posta a tutti coloro che pensano che sia possibile un’etica unica.


Ma è normale che vi siano diverse opinioni. Per iniziare a superare questa diversità è necessario che sia possibile attivare un processo riconosciuto dal gruppo di lavoro allargato che porti a trovare una condivisione nel dare una risposta. 


Vi domando allora: nelle decisioni alla fine della vita esiste l’etica come qualcosa proposta dall’esterno a sé o esiste un processo etico che porta a una decisione etica che supera la sensibilità personale e che diventa condivisa, per un’etica condivisa, per una scelta etica condivisa?


Il silenzio è di piombo, e non vi è una risposta.

ALTRE REALTA’ FUORI DALLA TERAPIA INTENSIVA

“i cronicamente critici”


Chi lavora in Terapia Intensiva vede nei pazienti solo due possibilità: la vita e il trasferimento in un altro reparto, la grave disabilità o la morte.


Ma esistono anche altre realtà e le illustra per primo il medico che lavora nelle Unità di Terapia Intensiva Respiratoria (UTIR) e dice…Per me che accompagno “i cronicamente critici” i confini, i concetti della vita o della morte cambiano.

“I cronicamente critici” sono quei pazienti che per anni sono ammalati d’insufficienza respiratoria e che poi quando sono esauriti, vengono ventilati a casa con un loro respiratore (come una loro protesi), accuditi dai familiari, ed ogni tanto per poco o per troppo nelle riacutizzazione della loro cronicità tornano in UTIR.


Esistono ovunque, ma quando ci si confronta nei congressi per numeri, tutti quelli che vengono da altri paesi pongono la stessa stupita domanda: Come mai voi avete tanti pazienti ventilati a casa? Forse sarebbe più corretto chiedersi anche: Come mai voi non li avete?


Quando all’inizio parlavamo di cultura, società differenti che creano sensibilità diverse non paragonabili, s’intendeva proprio questo. Da noi ci sono ancora le famiglie che si fanno carico di questi pazienti, in molti paesi non esistono nuclei familiari corrispondenti ai nostri, i figli escono presto da casa. E come si usa dire dalle nostre parti, ricorda il collega, “un padre campa dieci figli, dieci figli non campano un padre”, significa che i parenti non si fanno carico di questi pazienti.


Ogni famiglia, ci spiega il collega, trova le sue soluzioni per l’accudimento, che dipendono anche da chi è il malato. Se è un ragazzino, sono i genitori che danno la vita e la morte. Con i più anziani si osserva che, nelle classi più ambienti c’è la badante, i più poveri si sbracciano, i più ricchi passano spesso da un ospedale all’altro.


Ritornando alle decisioni di fine vita, il punto cruciale è che “i cronicamente critici” hanno anche un tempo per pensare alla loro morte, hanno anche un tempo prima della ventilazione a casa e quindi hanno anche un tempo per decidere .


Tutti loro dicono che quella che loro conducono non è una vita, tutti dicono che vorrebbero morire a determinate condizioni di vita, totalmente dipendenti dai familiari e dalle macchine, ed anche noi curanti pensiamo per noi la stessa cosa immaginandoci in quelle condizioni.…


ma, ci racconta il collega, su 152 pazienti solo due hanno deciso di chiudere con la loro vita, di non “farsi ventilare” a casa, di non farsi accudire dai parenti.


E allora mi domando, si chiede il medico che li accompagna nella loro vita di malati, questo concetto che “tutti vorrebbero morire” è una realtà o è una percezione? E’ realmente così? Forse il malato lo dice a parole ma nella realtà non vuole morire.


Anche perché progressivamente il concetto di qualità della vita nella malattia si sposta, è diverso. “Per me sano, qualità di vita può essere una nuotata al mare… ma a me ammalato non interessa….può essere vedere il raggio di sole che entra….vedere mio figlio che rientra in casa”.


Ma, continua il medico dell’UTIR, non si comprende perché tutti oramai debbano morire in ospedale anziché a casa. Non si capisce cosa noi medici dovremmo fare quando ci portano malati con un’età tale, tanto vecchi, da poter morire naturalmente anche senza malattie croniche dietro.


Ragioniamo!  dice il collega che ci invita a farlo. Quando si nasce, ci si prepara: il corredino, il battesimo, la festa, il medico che ti visita più volte e ti spiega, e per la morte... non facciamo niente.

davanti alla morte noi medici abbiamo la consapevolezza tecnica

della terminalità, ma per avviare un discorso verso la morte?


Davanti alla morte è come se si avesse in mano una patata bollente, io medico curante passo di mano al medico del Pronto Soccorso, io medico del Pronto Soccorso passo all’intensivista, e poi l’intensivista si gira e non c’è nessuno cui passare.


Manca la condivisione sui problemi, ognuno non fa la sua parte. Deve esserci un gruppo allargato, il gruppo curante, dal paziente, al medico di base, ai familiari allo specialista, che discute sui problemi e poi decide.


Noi invece vogliamo una legge per toglierci il pensiero. In certi paesi ad esempio hanno deciso che dopo i settantasei anni non si accede più alla rianimazione.  Forse è giusto o forse no perché gli anziani, i malati non sono tutti uguali. Ma una cosa è certa, una società non può aggirare un problema, deve affrontarlo. Non si può arrivare al termine di una vita cronica ed essere noi intesivisti o i parenti a decidere.


E’ una questione di camminare in verticale o in orizzontale. Posso camminare in orizzontale senza vedere e senza pensare, in superficie, superficiale, ma poi come acquisisco quella consapevolezza per prendere le decisioni? La consapevolezza deve transitare in noi, devono maturare certe cose per prendere le decisioni.


Io, intensivista, non voglio decidere per un altro.  Il paziente deve conoscere cosa è la tracheotomia e la vita dopo che lo aspetta e decidere se la vuole fare.


Anche se ho detto tutto questo, continua accorato il collega, io intensivista dell’UTIR che vivo molto i pazienti, seguo molto i giovani, mi rendo conto che discuto di una vita e di qualità di vita che non sono le mie. Spesso il distrofico ragiona e mi racconta di ciò che farà a cinquanta anni, ma come non lo sa che morirà a venticinque! FA PROGETTI DI VITA E VIVE OLTRE.


Il medico psichiatra interviene ed evidenzia: forse la negazione della morte è ciò che permette a questi pazienti di vivere.


Questi discorsi sui malati ventilati a casa portano alla mente di uno di noi rianimatori, che le racconta, le esperienze terrificanti vissute con i pazienti con la SLA, che sono perfettamente svegli, coscienti e tutti paralizzati, e che quando muoiono non c’è alcuno che non pensi “si levò di soffrire”.


Spesso ti chiedono solo con i loro occhi, come possono, di “farli morire” o di “non farli morire”. E tu sei lì e non sai che fare. Fare la tracheostomia o non farla … E poi la fai, e il paziente per qualche giorno può essere felice perché è passato da un momento di follia di morte a un momento di follia di vita, ma poi campa undici anni da sveglio senza un movimento, totalmente dipendente e soffrente, e allora ti domandi cosa hai fatto, se il meglio o il peggio per lui.


Chi si è posto la domanda non ha una risposta, eppure ha una successiva certezza. Allora dico che almeno bisogna far emergere il problema: c’è un momento in cui non c’è più niente da fare o si deve obbligatoriamente utilizzare sempre la tecnologia rianimatoria?


Ma poi vi è sempre il dubbio che, se anche ci fossero certezze su ciò che vi è da fare, con il paziente giovane la nostra reazione sarebbe diversa, forse ci si accanirebbe anche contro ogni logica.


La Discussione Continua nell’ Articolo Successivo sempre in FOCUS:


Il Dibattito continua nel file successivo sempre in Focus:

Fine Vita: ALTRE REALTA’ FUORI DALLA TERAPIA INTENSIVA,


Seconda ed Ultima Tranche di discussione


E non dimenticate i Racconti a Margine


Buona Lettura…


 
tratto dal numero 14