Perché l’etica è chiamata in causa in relazione alla fase finale della vita? Per quali ragioni tale fase è divenuta, da diversi anni a questa parte, un oggetto centrale o, addirittura, privilegiato della riflessione bioetica e biogiuridica?
La risposta a tali domande passa per due fondamentali rilievi. Il primo riguarda l’inscindibile connessione tra la parola “etica” e la parola “scelta”. Non si dà, infatti, problema etico se non c’è spazio per scelte tra diversi corsi d’azione possibili. Il secondo rilievo è, invece, relativo al significativo cambio di scenario che si produce dal momento in cui la medicina moderna, grazie alle strategie e agli apparati a più o meno elevato tasso tecnologico di cui si dota, viene ad esercitare un vero e proprio controllo sulla morte, sottraendola al caso e alla necessità e, per contro, rendendola sempre più dipendente da scelte che incidono non solo sul “quando”, ma anche sul “come” si giunge alla conclusione dell’esistenza. Mentre l’etica poco o nulla era chiamata in causa in assenza di possibilità di intervento e dei connessi problemi di scelta, finché – ed è storia solo di poche generazioni fa’ – assai breve era lo spazio che separava la morte dagli eventi (malattie, episodi acuti, incidenti) che ne erano causa, la fine della vita diventa contesto di problemi etici sullo sfondo e in collegamento con una medicina chiamata ad affrontare situazioni in larga parte prodotte dai suoi stessi successi. Mi riferisco, in primo luogo, all’incremento di patologie cronico-degenerative ad esito infausto, la cui evoluzione è accompagnata da un pesante deterioramento della qualità della vita e dal manifestarsi di situazioni di ingravescente sofferenza, con le quali i malati potrebbero convivere anche a lungo. In secondo luogo, all’aumentata esposizione di una sempre più vasta popolazione al rischio di trascorrere una parte della vita, quella conclusiva, in condizione di incapacità. In terzo luogo, alla diffusione di situazioni di vera e propria sospensione tra la vita e la morte, quale lo stato vegetativo permanente. Una condizione, quest’ultima - portata, negli ultimi tempi, all’attenzione anche dei non addetti ai lavori, soprattutto grazie al caso Englaro - che non esiste in natura, dato il ruolo determinante che, nel produrla e nel mantenerla, ovviamente come effetto collaterale non voluto e, allo stato attuale delle conoscenze, non sempre prevedibile, hanno gli interventi rianimatori e di sostegno vitale. In questo contesto si pongono le questioni etiche del fine vita, vale a dire i problemi di scelta ai quali rinviano quesiti che, da alcuni anni a questa parte, hanno ottenuto la crescente attenzione non solo di bioeticisti, giuristi ed operatori sanitari, ma anche del più vasto pubblico dei non addetti ai lavori.
A chi spettano le decisioni sulle cure? E’ giustificata la prassi, ancora assai diffusa tra gli operatori sanitari, di non informare il paziente sulla diagnosi e, soprattutto, sulla prognosi, se infausta, individuando nei famigliari gli interlocutori da coinvolgere nella gestione della malattia anche nel caso in cui non vi è dubbio alcuno sulla capacità del paziente? Oppure è solo nella volontà del malato, manifestata attraverso il consenso/dissenso attuale ai trattamenti, o affidata a direttive anticipate in previsione del subentrare dell’incapacità, che va cercato il criterio decisivo delle scelte terapeutiche e assistenziali? E ancora, dove passa il confine della giusta misura della cura, al di sotto della quale c’è l’abbandono e oltre la quale c’è l’accanimento terapeutico?
Se rivolgiamo attenzione a quei grandi contenitori di regole, principi e valori rappresentati dal diritto e dai codici deontologici degli esercenti le professioni sanitarie , troviamo ben definito un quadro normativo di riferimento dal quale per quelle domande, e per le questioni etiche che vi sono sottese, si possono trarre, rispettivamente, risposte e soluzioni che non lasciano dubbi riguardo all’accoglimento di “istanze di autonomia” e di “istanze di umanizzazione”.
Parlando delle prime, mi riferisco alla centralità che nel diritto, così come nella deontologia, ha assunto il riconoscimento del principio di volontarietà dei trattamenti sanitari – quello sancito dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione – come fondamentale criterio di riferimento per il corretto esercizio dell’attività sanitaria. Si tratta di un principio forte, da cui discende che la potestà di curare, così come il dovere di intervenire del medico e, più ingenerale, degli operatori sanitari, sono assoggettati al limite del rispetto della volontà del paziente. Una volontà che il paziente deve essere posto in grado di manifestare consapevolmente, sulla base di adeguate informazioni che gli operatori hanno il dovere di fornirgli, e una volontà che può assumere la forma del rifiuto dei trattamenti proposti, anche se salvavita. Perentorio, a questo proposito, l’art. 35 del Codice di deontologia medica, nel quale si legge che «…In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».
Parlando di istanze di umanizzazione, mi riferisco, invece, all’accoglimento dell’idea che, nei confronti di individui prossimi alla conclusione della loro vita, c’è un prioritario dovere da assolvere, il dovere di sollevare i malati dal dolore e dalla sofferenza, nelle sue multiformi presentazioni, mettendo in atto tutte le strategie funzionali al miglioramento del benessere e della qualità della vita dei malati che non possono guarire. Illuminante la prospettiva adottata al proposito ancora una volta dal Codice di deontologia medica, il cui art. 39 afferma che «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psico-fisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile, evitando ogni forma di accanimento terapeutico».
Vi sono buone ragioni per affermare che, a livello giuridico, non meno che a livello deontologico, si sono poste le condizioni per una sorta di divaricazione tra il dovere del medico di preservare, a tutti i costi, la vita e, quindi, di operare con il primario, o esclusivo obiettivo di impedire la morte, e il dovere di curare. Il dovere di curare si sgancia - potremmo dire - dal primo, e viene ad assumere un’autonoma rilevanza, con importanti ripercussioni sulla posizione del medico nei confronti della morte, oltre che sulla definizione dei suoi doveri e delle sue responsabilità rispetto al processo del morire.
Se la morte non è, infatti, più l’evento che il medico ha il dovere di impedire quando ha di fronte a sé un paziente che rifiuta un trattamento, e questo perfino nel caso in cui il trattamento sarebbe in grado non solo di salvargli la vita, ma, eventualmente, anche di restituirgli la salute o, quantomeno, di migliorare significativamente la sua condizione clinica, a maggior ragione, non si potrà, infatti, ritenere che la morte sia l’evento che il medico ha il dovere di contrastare, a tutti i costi, quando ha di fronte a sé un malato, affetto da una patologia ad esito infausto, o addirittura un malato terminale, cioè un malato che dalla messa in atto di trattamenti volti a conservare la vita può, assai spesso, ottenere un prolungamento o un peggioramento della sua condizione di sofferenza, piuttosto che un beneficio per la sua salute o un miglioramento della qualità della sua vita. In questo caso, il medico che, in nome del dovere di impedire a tutti i costi la morte, si ostinasse, come dice l’art. 16 del codice di deontologia medica, in «trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita», si porrebbe, di fatto, nell’impossibilità di assolvere il dovere di cura, intendendo con ciò il dovere di mettere in atto tutte le strategie, tutti gli approcci, funzionali al benessere psico-fisico degli individui malati, resi oggi disponibili dalle conoscenze in ambito clinico.
Dalle considerazioni che precedono si possono trarre precise indicazioni circa il modello di relazione paziente/operatori sanitari nella cui cornice affrontare e risolvere le questioni etiche di fine vita. Il modello in questione è quello di una “relazione per la cura”, improntata all’offerta di un’assistenza a tutto campo, non standardizzata, organizzata in modo da poter soddisfare in maniera specifica e mirata le esigenze non solo fisiche, ma anche psicologiche di ogni singolo malato e, soprattutto, mai dimentica che ogni individuo ha diritto di essere considerato “persona” sino alla fine della vita.
Proprio quel diritto è stato affermato nel primo degli articoli di cui si compone la Carta dei diritti dei morenti , un documento realizzato nel 1997 dal Comitato per l’etica di fine vita (CEF) , con l’intento di sensibilizzare gli addetti ai lavori e le istituzioni, ma ancor prima l’opinione pubblica, sulle necessità di una categoria di soggetti a cui la medicina, sulla scorta della tradizione che ha privilegiato il dovere di sanare (e serbare vitam) rispetto a quello di sedare dolorem, non ha riservato la dovuta attenzione.
Fino dal momento della sua presentazione, la Carta dei diritti dei morenti ha ottenuto lusinghieri consensi, ma si è rivelata bisognosa di chiarimenti che il CEF ha affidato a una pubblicazione dallo stesso titolo, licenziata nel 1999 . Tra i chiarimenti che si sono resi opportuni, o addirittura necessari, per dissipare l’impressione, suscitata in taluni lettori, di una certa ovvietà del documento, pur ritenuto complessivamente condivisibile, i primi hanno riguardato proprio la rivendicazione, per chi è prossimo alla morte, del diritto ad essere considerato persona. I chiarimenti a suo tempo forniti possono tornare utili anche nell’odierno contesto.
Quella di “persona” è una nozione controversa, non essendovi unanimità di vedute né sui requisiti dai quali lo status di “persona” dipende, né sui soggetti ai quali tale status va riconosciuto. Per taluni, gli individui sono persone in forza di caratteristiche loro proprie e connaturate; per altri, invece, lo status di persona è attribuito da norme, morali e giuridiche, correlate a valori che si sono venuti affermando, nel corso dello sviluppo storico, come irrinunciabili e meritevoli di attuazione. V’è, tuttavia, ampia convergenza nel ritenere che parlare di un individuo come persona significhi renderne immediatamente evidente l’importanza morale, legittimarne il ruolo di centro di imputazione di diritti e di doveri, affermarne l’attitudine ad essere soggetto e non solo oggetto delle decisioni rilevanti che riguardano la sua vita. Può sembrare del tutto ovvio che anche gli individui prossimi alla morte siano, a tutti gli effetti, persone nel significato sopra richiamato. E allora perché rivendicare il loro diritto ad esserlo?
La risposta, o se si preferisce, il chiarimento fornito allora, a giustificazione del primo articolo della Carta dei diritti dei morenti, e che può essere opportunamente riproposto anche oggi, nel contesto di una riflessione sulle questioni etiche di fine vita, si sostanzia nel rilievo che un individuo malato non è, di fatto, più trattato come persona quando si prende la gravità delle condizioni in cui versa a pretesto per sospendere nei suoi confronti regole e principi che, nell’attuale fase di sviluppo della società, sono considerate irrinunciabili nella vita degli individui, ovviamente degli individui esenti da malattie ad esito infausto e da condizioni gravemente invalidanti. Mi riferisco, a titolo puramente esemplificativo, ad alcune delle regole la cui violazione comporta forme di mortificazione incompatibili con la dignità del vivere, dalla regola che garantisce il diritto al nome, a quella che richiede sempre e comunque e, quindi, anche e soprattutto nelle situazioni di cura, il rispetto della privacy. Mi riferisco, inoltre, al principio, riconosciuto sul piano etico, deontologico e giuridico, che impone il rispetto dell’autodeterminazione degli individui riguardo alle cure, e quindi la loro informazione e il loro coinvolgimento nelle decisioni, o, quando tale coinvolgimento non è possibile, la messa in atto di interventi che si possano ritenere non in contrasto con la loro presumibile volontà, oltre che con il loro interesse. In altre parole, si priva un individuo dello status di “persona”, e se ne compromette la dignità, quando si giustifica e si pone in essere la sua separazione dal contesto del vivere sociale, sancendone la morte civile, prima che si realizzi la morte biologica.
Al modello di “relazione per la cura” con le caratteristiche sopra richiamate sono sottesi i fondamentali valori della solidarietà, della beneficenza, dell’uguaglianza, ma anche, e soprattutto, il valore dell’autonomia, il cui riconoscimento consente di attribuire un ruolo decisivo alla volontà degli individui direttamente interessati nel determinare le modalità appropriate della solidarietà così come della beneficenza di cui sono i destinatari.
Sono personalmente convinta che si tratti del modello da calare nella realtà della prassi assistenziale, se si vuol preservare quella dignità sino alla fine della vita condizione, a propria volta, di una morte alla quale si possa oggi associare l’aggettivo “buona”, senza produrre un effetto ossimorico!
Quanti passi sono stati fatti e quanti ne restano da fare in questa direzione?
Nel capitolo degli importanti passi compiuti va senz’altro menzionato il sempre più diffuso riconoscimento, anche sul piano istituzionale, del modello assistenziale al quale si ispirano le cure palliative. Non vanno inoltre dimenticate le importanti conferme che al modello di relazione terapeutica improntato alla valorizzazione della volontà del malato, direttamente manifestata, se capace, o espressa in sua vece da un rappresentante, in caso di incapacità, sono venute, negli ultimi anni, dalle decisioni della magistratura relative ai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro .
Molto, tuttavia, resta ancora da fare. Sul fronte delle cure di fine vita nella prospettiva assistenziale delle cure palliative non può, ad esempio, essere ancora considerata una realtà l’adeguata estensione dell’assistenza a tutto il territorio nazionale, né, pur nell’acquisita consapevolezza che quello delle cure di fine vita è tutt’altro che un problema solo oncologico, l’erogazione delle cure palliative a tutti i pazienti giunti alla fase estrema delle malattie da cui sono affetti. Nel caso delle malattie cardiologiche, nefrologiche, neurologiche pneumologiche, così come nel caso dei complessi quadri di pluripatologia in ambito geriatrico, perdura il paradosso di malati, affetti da malattie ingravescenti ad esito infausto, che muoiono senza essere mai divenuti terminali. Perdurano, cioè, le resistenze a riconoscere che è in atto quel processo del morire che richiede la specifica risposta assistenziale che le cure palliative offrono da tempo ai malati oncologici. Bisogna, inoltre, intervenire sul fronte della formazione e anche ripensare i modelli organizzativi, al fine di evitare che gli hospice divengano le fotocopie delle strutture ospedaliere.
Tutto questo è necessario, ma non è, però, ancora sufficiente. Per far sì che si ponga in essere un vero e proprio mutamento di paradigma nella pratica e, ancor prima, nell’etica medica, si deve tornare a far chiarezza sugli aspetti ai quali maggiormente si lega l’innovatività e la forza dell’assistenza nella prospettiva delle cure palliative. Il primo aspetto va, indubbiamente, individuato in quel radicale e incisivo ripensamento degli scopi della medicina che le cure palliative hanno realizzato quando hanno fatto propria l’idea che alleviare la sofferenza del malato non è per il medico soltanto un dovere subordinato, o quantomeno un dovere necessariamente connesso al dovere di “sanare”, di ripristinare la salute rimuovendo la causa della patologia. E’, bensì, per il medico un dovere avente autonoma rilevanza, ed è, soprattutto, l’unico dovere da assolvere nei confronti dei malati che non possono guarire e sono pervenuti alla fase terminale della loro malattia.
É vero che con l’attribuzione al sollievo dal dolore della valenza di specifico e diretto scopo della medicina si produce una svolta radicale nel modo di intendere e di praticare la medicina stessa e l’avvio di una vera e propria controtendenza rispetto alla medicina incline a considerare la malattia alla stregua di un guasto meccanico oggettivamente caratterizzabile senza alcun riferimento al benessere e agli stati soggettivi delle persone. Ma, se la svolta si produce, è perché l’attenzione per il problema della sofferenza va di pari passo con la centralità riconosciuta alla qualità della vita, che, nel caso dei malati non più responsivi a cure finalizzate alla guarigione, sostituisce la salute nel ruolo di fondamentale criterio orientativo delle scelte sulle cure. Dal momento, infatti, che la qualità della vita non può essere determinata solo dall’esterno, e in termini esclusivamente clinico-oggettivi, ma ha un’ineliminabile connotazione soggettiva, farne il criterio orientativo delle scelte assistenziali significa investire il malato del ruolo di “protagonista delle cure”, di soggetto al quale spetta scegliere, tra le diverse terapie messe a disposizione dalla conoscenza medica, quelle maggiormente idonee a soddisfare i suoi bisogni e a rispettare i suoi valori.
Ora, se si può a ragion veduta ritenere che il mutamento di paradigma nella pratica e, ancor prima, nell’etica medica può passare attraverso la diffusione delle cure palliative, è, però, anche, se non solo, perché è ad esse inerente la rivalutazione della “centralità del malato”, da garantire attraverso una prassi assistenziale realizzata non solo in funzione dei bisogni del malato, ma anche e soprattutto in costante riferimento con i desideri e le volontà che egli manifesta.
In altre parole, le cure palliative possono, senz’altro, rappresentare il fronte avanzato per la messa in atto di una vera e propria rivoluzione rispetto all’etica medica tradizionale ed essere il contesto nel quale molto si può fare perché sia preservata, il più possibile, la dignità alla fine della vita, ma solo alla condizione di coniugare l’impegno per il sollievo della sofferenza con il riconoscimento del ruolo imprescindibile delle valutazioni del malato, il quale va considerato unico legittimo giudice della sua sofferenza e della qualità della sua vita. Se, diversamente, si risolvono in interventi assistenziali posti in essere con la convinzione, o forse meglio con la presunzione, che la sofferenza abbia dei connotati oggettivi che l’operatore sanitario è sempre perfettamente in grado di decifrare, decidendone quindi anche la quantità, la qualità e il grado di tollerabilità, le cure palliative non vanno esenti da un grosso rischio, il rischio di rappresentare l’ultimo baluardo di quel paternalismo beneficialistico, di cui dovrebbero segnare il definitivo tramonto.
Si comprende, allora, quanto fuorviante sia la tesi - sostenuta da coloro che hanno cercato, negli ultimi anni, di frapporre ostacoli alla disciplina legislativa degli strumenti, quali il consenso informato e le direttive anticipate, volti a consentire il coinvolgimento degli individui nelle scelte sulla loro salute e la loro vita – di una sorta di alternatività tra tali strumenti e le cure palliative, che li renderebbero superflui nel momento in cui conseguissero l’obiettivo di eliminare l’abbandono così come l’accanimento terapeutico. Al contrario, potenziamento delle cure palliative e valorizzazione degli strumenti che consentono il coinvolgimento dei malati nelle decisioni sulle cure sono strade da percorrere congiuntamente. Il legislatore, ha compiuto un passo importante emanando il 15 marzo 2010 la legge n. 38 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Vanificherebbe, però, le possibilità di impatto positivo di questo significativo intervento normativo se, trasformando in legge il disegno di legge “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, annullasse, con le sue insensate previsioni vitalistiche (idratazione e nutrizione artificiali da somministrare sempre e comunque!) il diritto di ogni individuo di ricevere, sino alla fine della vita, cure conformi alla sua volontà, limitando, al tempo stesso, gli operatori sanitari nella loro autonomia professionale. Il disegno di legge, approvato dal Senato il 26 marzo del 2009, non ha, a oltre un anno di distanza, completato il suo iter parlamentare. Concludo formulando l’auspicio che gli operatori sanitari impegnati nell’assistenza alla fine della vita siano tra i primi ad attivarsi in tutte le sedi possibili per scongiurare il pericolo che l’obiettivo di garantire a tutti gli individui di poter morire in pace e con dignità sia reso definitivamente irraggiungibili. Sono persuasa che saranno tanto più in grado di farlo quanto più avranno consapevolezza delle implicazioni etiche del loro operare quotidiano.