In morte del padre
Daniela Thomas
 





Febbraio 2010

Passò un mese, poi un altro mese, ed io ancora sentivo, a tratti, il puzzo delle piaghe, i rantoli, e quel terribile “aiutami”. Era colpa mia se mio padre era morto. Io avevo aperto la porta alla morte, di questo ero certa. E non ero riuscita a morire al suo posto come, senza che lui lo sapesse, gli avevo promesso. Non ero stata brava come lui avrebbe voluto. Non sarebbe mai stato orgoglioso di me. Per me non era più possibile la vita. Non avrebbe mai saputo di cosa ero davvero capace.
Era l’unica persona che mi capisse davvero, nonostante fossimo in perenne conflitto.
Mai un amore più grande. Non faceva altro che disprezzare e svalutare ogni cosa che facevo, ma era per il mio bene: lui sì che mi capiva.
E continuava a guardarmi con biasimo, questo lo sentivo con chiarezza. Dovevo dimostrargli chi ero, dovevo vederlo ancora.

Dopo due mesi dalla sua morte, il 3 marzo, lo ricordo bene, presi tutte le pillole che mi erano rimaste di lui e mi andai a sdraiare sul letto, vestita, col mio vestito più bello: volevo assolutamente raggiungerlo.
Quel giorno mia sorella uscì dalla scuola prima, perché c’era sciopero. Mi trovò incosciente sul letto, con la foto di mio padre accanto. Mi chiamò, mi scosse, ma non la sentivo.
Fui trasportata in rianimazione con l’ambulanza, ma di questo non ricordo nulla.
Ricordo che cercavo di gridare con tutte le mie forze, io che non grido mai, ma avevo la gola chiusa e non potevo inghiottire. Ancora a volte in sogno mi torna questa sensazione di non poter inghiottire, di avere la gola come addormentata e molle, di sforzarmi di gridare e non sapere se ci riesco o no. Poi un risveglio confuso. Poca luce, teli verdi, la delusione di esserci ancora. Un amico anestesista mi parlava, ma non potevo rispondere. Cercavo di scoprirmi e lui mi ricopriva: sentivo di essere nuda. Parlava serenamente, forse era notte.
Poi qualcuno, sempre un uomo, mi chiedeva “perché l’hai fatto?”, ma non sapevo cosa volesse dire, non aprivo gli occhi e non rispondevo, lui diceva “sei così giovane, hai tutta la vita davanti” e io lo odiavo, lui continuava “sei incinta? Il tuo ragazzo ti ha lasciato?”. Anche una donna veniva a parlare con me, mi faceva tante domande ma io non rispondevo, mi sembravano insulse, non sapevo cosa volesse. Aveva gli occhiali, i capelli neri, l’accento di paese. Mi chiedevo come poteva pensare che parlassi di me con lei così estranea.
Poi vedevo nella stanza una donna intubata, nel letto di fronte al mio, e un’altra donna accanto a lei che piangeva piangeva piangeva. Ricordo che questo mi fece arrabbiare moltissimo. Ricordo che nonostante la flebo mi alzai e gridai alla donna che non doveva piangere perché “sua figlia” (ma non so se lo fosse davvero) non era morta. “E’ viva!”, gridavo, “è viva!!!! E piangendola ora lei la fa sentire già morta, non lo capisce?”. E la donna mi guardava senza capire, e un’infermiera mi disse di rimettermi a letto perché avevo addosso un camice (credo verde) legato dietro con dei laccetti e quindi ero praticamente nuda. Ricordo che cercai di aggredire l’infermiera, e lei chiamò l’uomo di prima dicendogli che non mi si poteva consentire di alzarmi perché ero indecente. Poi non so, mi rivedo a letto, esausta.
Poi mi aiutarono a rivestirmi col mio vestito bello. L’avevo comprato con i miei risparmi e ne ero orgogliosa, era il vestito più carino che avessi mai avuto, molto femminile. Ricordo che cercai di strapparmelo di dosso, e in parte ci riuscii. Mi fecero aspettare nel corridoio qualcuno che venisse a prendermi. Ricordo che aspettavo in piedi, col vestito strappato, senza biancheria intima addosso, senza calze. Tutti mi guardavano, seduti, tristi, cupi, in quell’orribile corridoio rischiarato dal neon. Poi arrivò quello che allora era il mio ragazzo: timido, imbarazzato, felice di rivedermi, ed io lo aggredii selvaggiamente, gridando, graffiandolo, prendendolo a pugni. Lui mi avvolse in un abbraccio fermo che mi impediva di muovermi e mi mise in macchina, seduta, piegandomi le gambe perché non volevo entrare. A casa mia madre gli disse di mettermi nel suo letto. Ricordo che nel letto di mia madre mi sentii un po’ meglio, e il mio ragazzo mi stava vicino ed io sentii un potente desiderio di fare l’amore con lui. In quel momento mi sentii viva, calda, felice; ma durò poco.
L’indomani tornò l’anestesista, che era un amico di famiglia.
Mi disse con lunghi giri di parole che conosceva una persona che avrebbe potuto aiutarmi: uno psichiatra.
Timidamente mi propose di provare a parlare con lui. Ed io mi sentii, chissà come, di nuovo felice.
Dopo qualche giorno andai a trovare lo psichiatra. Era sera, io ero l’ultima paziente, e qualcuno aveva spento la luce nella sala d’aspetto, cosicché mi sembrò di percorrere un lungo tunnel buio, guidata dalla luce della sua stanza alla fine. Avevo immaginato di incontrare un uomo anziano, severo; e invece era giovane, gentile. Anche lui aveva perso il padre da poco: il giorno prima del mio.
Quella sera rinacqui nel suo sorriso.


 
tratto dal numero 14