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Racconti a margine

Outcome

10/09/2012  
Lucetta Fontanella ed Alessandro Vitale-Brovarone

Intro

Lucetta Fontanella è sopravvissuta ad un ricovero in una Terapia Intensiva aperta ai Familiari h 24, per una grave patologia; e dalla sua dimissione, attraverso libri, scritti, il sito ospedaleaperto.com, il suo blog, riunioni e conferenze (frutto della sua esperienza di paziente analizzata con gli strumenti del suo lavoro di docente di Didattica dell'italiano alla Facoltà di Lettere dell'Università di Torino), porta avanti un progetto per aprire le porte delle Terapie Intensive ai parenti dei ricoverati. Abbiamo invitato Lei ed il Marito a scriverci le loro impressioni sull’oggi, in questo loro lento allontanarsi dal ricovero, con uno stato d’animo a volte simile al “sentirsi nella nebbia e non riuscire a vederla”, come scrive Alessandro.
“Outcome”, non comune riflessione scritta a quattro mani sul dopo ricovero in TI, molto più di tanti articoli scientifici e studi sul problema, risulta indispensabile bagaglio di conoscenza e riflessione per tutti noi, medici pazienti staff, persone comuni, per aprire la strada alla partecipazione dei parenti al processo di cura nei reparti Intensivi.
il racconto è apparso in Focus N° 17 di questa stessa rivista. Ve lo riproponiamo.
S. Vasta


Outcome

da Lucetta

Ho imparato che si chiama outcome, ma a me piace chiamarlo dopo, perché c’è un prima e poi c’è un dopo. Prima di un improvviso guaio di salute e di un ricovero in una Terapia intensiva, e dopo. Anche se il reparto in cui sei stato ricoverato è davvero raro, per tanti aspetti il dopo non riesce a dimenticare il prima, ma si deve trovare un posto a tutte e due, senza forzature. Che se ne esca fuori, per ora non sono sicura. Ma la cosa non mi preoccupa.
Nella mia vita ho sempre cercato di far posto a tutti e tutto, con poche eccezioni. E poi penso sempre alla saggia madre di una mia amica che diceva “Ho l’insonnia, ma non ne soffro”.
Non riesco però ad immaginare come raccontare lungo un filo, che sia logico o cronologico.
Pescherò ricordi, impressioni, sensazioni, così come affiorano.

Quanto ti rimane addosso

Moltissimo. Mi stupisco ogni giorno. E non è una sensazione spiacevole. Voglio dire che ogni volta, durante la giornata, che affiora, anzi irrompe, un ricordo, lo accolgo e mi prendo il tempo per ricordare con calma. Questo non è spiacevole. Certo, se il ricordo riguarda il primo, orrendo medico che ho incontrato in un Prontosoccorso, il tempo che mi prendo è per augurargli di tutto. La cosa che gli auguro più spesso è di essere lapidato dalla grandine in cima a una montagna. Forse perché sa di punizione divina, e non devo sentirmi troppo colpevole (in montagna, in fondo, è salito lui). Subito dopo mi diverte il fatto che io gli auguro di tutto e lui non sa neppure che esisto.
E’ di sera che ricordo di più, quando vado a letto. Anzi, proprio quando mi infilo nel letto. E’ un momento che a me è sempre piaciuto moltissimo. Mi metto sotto le coperte e mi vedo, e mi sento, nel mio letto 9 (che fosse il letto 9 l’ho saputo dopo). Un letto comodissimo, il più comodo che si possa immaginare. Inclinato in un modo giustissimo, che ti accoglie come una culla.
E ogni sera, in questo letto, mi addormento ricordando la mia terapia intensiva che mi è rimasta nel cuore e che sono felice di poter ricordare da persona che sta bene.

Stai bene? Ma stai bene, adesso?

Me lo chiedono in tanti, con uno slancio che non è quello solito, quello del banale “come stai?” che ci scambiamo in continuazione e a cui rispondiamo per lo più con frasi fatte. E’ uno stai bene? preoccupato, affettuoso. Bene, questa preoccupazione mi procura tuffi al cuore profondi come abissi. Il pensiero è uno e chiaro: se me lo chiedono così è perché in qualche modo dimostro di non stare bene. La risposta di solito è un po’ titubante: “sì, sto bene…” “perché?” In realtà è una risposta allarmata. Poi incomincio a studiare chi ho di fronte, per capire come stanno davvero le cose.
Finora sono stati tutti falsi allarmi. Però tutto questo poggia su una questione di fondo: io ho il terrore che questo mio stare bene improvvisamente finisca, e che qualcuno lo sappia e non me lo dica.
In questi tre anni ho letto molto (ovviamente leggendo in rete, a casaccio) e ho ascoltato molto.
Tutto questo non fa affatto bene, anzi peggiora l’ansia. Le statistiche poi sono trappole che sarebbe bene evitare.
“Chi è stato ricoverato in Terapia intensiva ha minore aspettativa di vita”. Ho spesso davanti agli occhi quella curvetta che dopo sedici anni dal ricovero piega in giù, come il collo di un uccellino che raccogli moribondo. Che cosa vuol dire quella statistica? Che quando avrò 74 anni (che, a dire la verità, non sono pochi, ma si diventa golosi di vita, invecchiando) incomincerò a piegare il collo? Ma dipenderà anche dal tipo di ricovero, no? Le statistiche frullano tutto insieme, mentre io devo pensare al mio caso. E il mio caso, com’è? Il mio cervello raccoglie tutto ciò che trova sulla sua strada, sull’argomento, e mette da parte. Una mia vicina, che per tanti anni come primario si è occupata di un reparto di terapia intensiva, una volta mi ha detto “guardi che adesso lei è a posto; ha avuto una cosa grave, ma adesso è superata”. E questo l’ho messo da parte, in bella mostra. Un’altra volta ho chiesto ad uno dei rianimatori che mi hanno salvata “ma io, adesso, sono una persona normale?” “Certo!”. Anche questo messo da parte, in bella mostra.
Ma allora perché continuo ad avere paura di rompermi tutta di colpo, e mi viene spesso in mente quella curvetta discendente sull’aspettativa di vita di chi è stato ricoverato in rianimazione? Perché quelle cose riposte in bella mostra non mi rassicurano?

A quanti di voi capita?

Per una serie di circostanze dopo il mio ricovero è nata una bella amicizia e una bella collaborazione con i medici e gli infermieri della terapia intensiva che mi hanno curata. Questo ha prodotto un libriccino (che oggi si chiama La comunicazione diseguale, e che per due anni ho diffuso come Laparolinguistica) e tanti incontri con medici e infermieri, soprattutto sul tema dell’apertura senza limiti dei reparti ospedalieri. Dico tutto questo perché voglio raccontare una sensazione che provo ripetuta e rassicurante ogni volta che mi trovo ad uno di quegli incontri. Che io stia ascoltando o che io stia parlando, con frequenza regolare e ravvicinata, mi trovo a pensare “che bello essere qui con tutti questi rianimatori. E in più, in un ospedale! Se mi succede qualcosa, sono a posto”.
A quanti di voi capita?

Vie di uscita

Come uscire da un’ improvvisa implosione (così io immagino il mio possibile star male, rompermi tutta) è un altro pensiero che occupa spesso il mio tempo. Noto però che questo gioco mi sta sempre più annoiando. Tempo fa mi ci dedicavo con attenzione e apprensione (ecco, sono qui da sola, se mi succede qualcosa, che cosa faccio? chi chiamo? quanto ci mettono ad arrivare? e così per lunghi minuti). Ora incomincio la trafila di domande, ma quasi subito mi annoio e mi distraggo. Perché dovrebbe succedermi qualcosa? Respiro, cammino, ho fame, penso. Mi sembra che non è il caso di preoccuparmi.
Ecco, il fatto di avere fame è per me un segno inconfutabile di buona salute. E siccome ho fame a tutte le ore, con brevissimi intervalli, questo funziona da ansiolitico naturale.

Normale. Davvero normale?

Siccome io tendo a credere a chi mi dice che sono normale, proprio normale, incomincio a seccarmi anche della paura, che ho da quando sono uscita dall’ospedale, che mi esca del sangue, molto sangue, da qualche buco che ho nel corpo. Soprattutto quando sono stanca, la paura si affaccia e si riaffaccia, ma da un po’ di tempo la accolgo decisamente seccata “basta con sta storia!”, e penso ad altro.
Ciò che invece costituisce ancora una piccola zona di dubbio è un dato oggettivo: la mia salute continua a migliorare, ed è qualcosa di cui io sono certa. Dunque proprio normale non sono, ma normalizzanda.
L’esempio più evidente è quello della mia “carica”.
Da quando, ormai tre anni fa, io mi sono risvegliata nel mio letto 9 della Terapia intensiva, e ancor più quando sono uscita dall’ospedale dopo essere stata quindici giorni in terapia intensiva, otto in medicina d’urgenza e sette in chirurgia, ho avuto la netta sensazione di un cervello funzionante come prima e di un corpo azzerato, che, giorno dopo giorno veniva ricaricato con una carica sempre un pochino, un pochino più lunga. Durante le ore (molto poche all’inizio) di carica mi pareva di essere quella di prima, poi arrivava come un improvviso colpo che rendeva assolutamente necessario andare a letto e dormire, subito. Anche il cervello si annebbia. Ora il colpo arriva verso le undici, mezzanotte, ma ad esempio un anno fa arrivava ancora puntuale verso le nove, nove e mezza. Impossibile resistere.
Di che cosa si tratti non lo so. Ho una mia teoria che non oserò mai esporre ad un medico, perché è un po’ come quando degli amici inesperti mi propongono con convinzione etimologie fantasiose.

Una vita davvero normale

A questo punto devo rassicurare chi legge sul fatto che io sono molto contenta della vita che faccio. Ritengo che dopo una iniziale sfortuna, che può capitare a tutti, ho avuto la fortuna di imbattermi in persone e strutture assolutamente rare nella situazione italiana. Queste sono cose che non si possono dimenticare e ti fanno stare bene, perché sentirsi fortunati fa stare bene.
Fa anche stare molto bene avere una famiglia bellissima, di cui non parlo perché sono cose proprio mie.
Sono certa che loro, mio marito e i miei figli, sono stati molto, molto peggio di me durante il mio ricovero. Il peggio io l’ho passato nell’incoscienza. Certo, un’incoscienza molto indaffarata con incubi e un gelo mortale, pianti di commiserazione disperati e arrabbiature, ma non ricordo l’angoscia che vedevo chiara sulla faccia di mio marito e che gli vedo ancora di tanto in tanto.
Non ricordo di aver mai avuto paura di morire.
Per questo mi sembra che dividere questo spazio, che mi è stato offerto, con mio marito sia un modo di ricordare equilibrato. E’ stata ricoverata tutta la mia famiglia, e non solo io!

da Sandro

Faccio il numero di telefono di casa, o quello del portatile. Mi risponderà. Sono molto preparato. Mi aspetto che dica: “Pronto”. Se vede il numero sarà un po’ ringhiosa, se no gentile; e io  subito le faccio i versi, per farla ridere, ripetendo la sua intonazione. “Cosa vuoi, stavolta?” “Ho sbagliato numero”; oppure “Cosa devo comprare?”, oppure qualche variante. “Soldi buttati. Quand’ è che ti fai furbo?”
    Mi dispiace, non mi farò mai furbo. In  realtà non ho niente da chiedere. Ho solo paura. Chi segue la strada di qualcuno così vicino a sé (al punto di non saper bene distinguere chi è chi) attraverso le grandi incertezze della terapia intensiva non cambierà mai; si resta con una paura che domina tutto. Non saprei neanche spiegare bene. Quando si passa un certo tempo in un’ ansia che non lascia neppure uno spiraglio serio per la speranza, si resta diversi. Dall’ esterno si potrebbe pensare e dire che la speranza invece deve esserci stata, ma invece non è così, o non è sempre così.
    Normalmente si spera qualcosa che si vuole e si ritiene di meritare: vincere, riuscire, in cose grandi o in cose piccole. Invece tutto si gioca su altri pensieri, tutti impossibili, tutti senza speranza. Perché non io al posto suo? A chi posso chiedere di mettere me al suo posto? È vero quello che sta accadendo?
    Non si riesce neppure a capire bene che il futuro può essere buio, oppure luminoso. Come un animale trasportato in gabbia: accade qualcosa che non si capisce, si sta fermi; poi si è liberati oppure no, ma tutto quello che si è riusciti a fare è stare fermi e non capire; ogni sensazione che sopraggiungesse è una sensazione dolorosa. Anche quando ti viene detto che tutto ha imboccato la strada giusta, e non c’ è più ragione di temere nell’ inmediato, sei contento, ma senti il cielo buio. La situazione è acquisita, e non cambierà mai. Si può ridere, avere allegria, per un pochino, ma poi no.
    Resta una paura non dominabile. Così come nei momenti più difficili si aveva difficoltà a capire se era vero o no, anche adesso si deve tener duro per non essere presi dalla stessa sensazione. “E se non fosse vero che tutto si è rimesso a posto?” “E se fosse una parentesi che esiste solo nella mia testa?”
    Così non mi piace più che si cammini assieme dove ci sono tante persone. Se la perdo di vista non sono impensierito, ho proprio un vero panico. Se mi dicessero che con una medicina o un amuleto potrei sbarazzarmi di tutto questo, non lo vorrei; non che io pensi che sia un modo per controbilanciare, pagando un po’ in prima persona, non è così. Semplicemente si resta diversi, anche meno flessibili e pronti.
    E così viene naturale telefonare per sapere se ci sono limoni in casa, o se è finito il parmigiano. Lo facevo anche prima, questo è certo, ma la frequenza è ora del tutto diversa: forse si accentuano le inclinazioni, lungo linee di minor resistenza. So benissimo di non aver più nulla delle mie capacità di resistenza e reazione; sono qui, ad aspettare non so cosa.
    Le sensazioni sono certamente diverse da persona a persona, ma mi pare di aver notato la stessa cosa nelle tante famiglie che stavano in attesa quando noi stavamo in attesa. Si osservava una riduzione dell’espressività, tutto era compresso e dominato da questo senso di assedio. Naturalmente ciascuno nel momento in cui aveva una buona notizia era contento, ma la contentezza era distribuita: non si riusciva ad essere contenti se anche gli altri non avevano buone notizie; insomma ciascuno si rendeva conto di essere, in sé, poco o niente. Anche questo resta, e non sembra cambiare nel senso.
    Alcune certezze sono acquisite: tutto è finito, non ci sono conseguenze né perdite, lo so. Percepisco nettamente tante preoccupazioni in più: un mal di pancia dopo essere stata in una corrente d’aria che massacrerebbe un pugile inevitabilmente è percepito come una possibile avvisaglia; un’ allergia che prima non c’ era, o si sentiva appena sembra essere il segno di qualcosa che è cambiato ed è fuori controllo. So benissimo che non è vero, ma certamente non mi sento di semplificare; l’ epoca dei “Dai, non è niente” è chiusa. Non è, naturalmente aperta quella degli allarmismi: tutto è chiuso in una banda stretta, è naturale che sia così.
    Anche altre cose cambiano di conseguenza: si lavora ma ci si stanca meno, si dorme e non ci si sveglia mai riposati. Non ci sono, ma credo che per altri ci siano, veri incubi. Certo, la prosecuzione di sensazioni che si hanno da svegli. Sentirsi nella nebbia e non riuscire a vederla. Mi ricordo che questo è accaduto anche in uno dei momenti più duri, all’ inizio; mi trovavo nello smarrimento più completo. Poi, all’ improvviso, la voce di un mio grande maestro francese, grande amante della vita, che mi dice: “Mais non, elle est là, derrière vous”. E così era.
    Ad ogni dettaglio ci si attacca, nei momenti acuti, ma anche dopo, e credo sempre. Ti resta l’ impressione che se molli un momento, tutto possa sfasciarsi. Prima ogni tanto si poteva pensare: “Sono stanco, adesso dormo un po’”, e fare come se il mondo non esistesse: bellissimo. Ora certamente non più. Ci si sente come una sentinella che non  può addormentarsi: ovviamente si sa anche benissimo che tutto questo non serve a nulla, ma forse proprio per questo non  si molla mai.
    In pratica, per dire in  breve, si resta segnati, e direi anche come una toma dentro tutta rosicchiata dai topi. Tutto sta su, ma potrebbe anche andare giù. E si trova che vada bene così.
    
    Alcune cose esterne lasciano tracce importanti, e su questo è bene che si faccia una ulteriore riflessione. Ricordo brevemente le cose positive; quelle negative sono forse meno importanti. Alcuni comportamenti dei medici, degli infermieri e in generale della struttura lasciano tracce, non  solo nella gratitudine (soprattutto nei casi in cui “tutto finisce bene”).
    La competenza, molto sicura ma mai ostentata: a me personalmente non fa male essere considerato come un oggetto, ma certamente non sopporterei ce lo si facesse con persone cui voglio bene. Che le scelte mediche siano soppesate, e che questo sia comunicato, fa percepire una attenzione che in seguito, nei momenti dopo il ritorno a casa, lascia un atteggiamento ragionato, e non quello di averla scampata. Resta per l’ ospedale (o meglio per le persone) una continuità di rapporto che è importante: l’ ospedale viene percepito, in una certa misura, come una cosa propria. Non ci rientrerai mai con indifferenza, ma neanche con senso di ostilità.
    I modi di lavorare, seri e concentrati. In certi casi chiedevamo spiegazioni anche in eccesso, volevamo essere certi di aver capito – e in qualche caso magari si riempivano dei silenzi – e le abbiamo sempre avute; magari in qualche caso ci è stato detto con garbo: “Un momento che finisco quello che sto facendo”. Non solo nel momento di allora, ma anche dopo, resta la certezza che accanto alla competenza c’ è una forma di affetto per le persone cui vogliamo bene, speculare rispetto al nostro, diverso nelle forme, ma della stessa qualità. La sicurezza che questo sia avvenuto consente di affrontare con serenità il “dopo”.
    Un aspetto un po’ diverso e difficile da spiegare è costituito dagli atteggiamenti. Quando comparo in termini generali ospedali e cliniche private, sono portato a dire, come è ovvio, che le cliniche hanno un migliore rapporto con i malati e con  le famiglie. Questo è certamente vero, ma forse in non tutti gli aspetti. Perché ad esempio mi ricordo tutti i medici e gli infermieri della rianimazione, mentre non ricordo neanche un infermiere della clinica? Certo, sono tutti casi singoli, ma forse la premurosità standard e obbligatoria pesa meno che un atteggiamento di attenzione cui si potrebbe facilmente sottrarsi, ma che è invece praticata per scelta personale e di reparto? La buona esperienza di ospedale che ho avuto lascia la certezza di aver condiviso un importante momento della vita e di continuare a condividerlo.
    La certezza di poter comunicare anche dopo è di grande aiuto. Certo, di qualcosa sei stato più contento, di altre sicuramente meno, ma sai di poterne parlare: il rapporto qualitativamente buono non permette che siano confusi suggerimenti con proteste sgradevoli. So benissimo di poter andare là e dire che quando il terzo giorno di ricovero in terapia intensiva arriva a casa nostra una telefonata alle sette di mattina: “Parlo con la famiglia della signora ...?” “Sì” “Volevamo sapere bene il codice fiscale”. Posso sorridendo oggi suggerire di non fare mai più una cosa del genere. Non lo potrei fare se fosse il rapporto con  medici e infermieri fosse stato in stile: “Noi sappiamo quello che facciamo, e lei se ne stia in là”. Determinate scelte durante la permanenza in ospedale favoriscono o sfavoriscono un successivo rapporto far noi e le strutture diverso da “Come si permette” e “Io la denuncio”.
    Così, durante i momenti difficili si immagazzinano in modo disordinato stati d’ animo, pensieri, osservazioni, che poi lentamente si sistemano, senza trovare mai un equilibrio definitivo, restano sempre allo stato di problema, ma pian piano si chiariscono. Faccio soltanto qualche esempio.
    Quando si sta in attesa si pensa in modo confuso. Non mi è stato, per mia fortuna, chiesto di esprimere pareri né in nome mio né in nome di altri, salvo l’ autorizzazione ad una terapia in corso di sperimentazione; naturalmente – e qui credo stia il difficile – tutto dipende da un rapporto di fiducia, difficile da definire, e ben poco razionale. “Se stanno sperimentando vuol dire che ci credono; se hanno l’ aria intelligente vuol dire che credono in una cosa migliore, se no non la proporrebbero; se hanno l’ aria non intelligente o distratta sarà il caso di contrariarli? Cambio ospedale? E su che base? Perché un amico mi ha detto che è meglio? Oppure seguo semplicemente una mia inclinazione verso ciò che è consolidato o verso la sperimentazione? Ma in questo caso le informazioni che mi danno non sono decisive per una scelta condotta su inclinazioni che preesistono”. E così si approda a dire: “E lei cosa farebbe ?”, che è una domanda un po’ stupida, ma in fondo non troppo. A seconda della qualità dei medici il “consenso informato” assume maggiore o minor significato, e su questo devono riflettere anche i medici, anche loro, probabilmente, senza poter arrivare a qualcosa di definitivo.
    Anche, quando si è in attesa (un’ attesa senza trepidazione e senza speranza specifica, ma solo opprimente), si è in mezzo ad altre persone. La sensazione che ho avuto sempre, e credo che anche gli altri avessero la stessa, era di non riuscire a attendere solo per me, ma anche per le altre famiglie; gente diversissima da me e fra di loro. Di fronte ad una buona notizia non si riusciva ad essere contenti se anche gli altri non ricevevano qualcosa di buono; e quando le notizie erano non tanto buone (non ne ho ricevute di totalmente cattive), si pensava: “Beh, almeno loro hanno avuto qualcosa di buono”. E così anche si pensava che il fatto di essere in un ospedale eccellente, seguiti da una équipe eccellente (qualità che dopo ho apprezzato anche più di prima), era un privilegio rispetto ad una lunga scala che portava da noi ad altre situazioni: “Vorremmo fare di più ma le strutture sono quelle che sono” “Qui lei non serve a niente, torni a casa” “Qui lei non serve a niente, torni al paese, in settimana le telefoniamo” “I medici siamo noi, ci lasci lavorare” “Se ne salva uno su quattro” “Ci vorrebbero macchine che non ci sono” “Non c’ è niente da fare, il personale comanda lui” e poi anche “Questo è un paese povero; morire dobbiamo tutti” “Capisce che siamo in guerra ?”.
    Così non si poteva essere contenti del proprio privilegio, ma si pensava sempre, ripercorrendo la stessa scala a ritroso “Perché in un posto una intera équipe di medici e infermieri bravissimi sta facendo sforzi grandissimi per salvare una persona, e in un altro posto si bombardano le case ?” “Perché vivere o non vivere è diverso a seconda di dove si nasce ?” “ Perché scaricare sempre la colpa su altri ?” “Perché in un paese ricco non si può comprare la macchina che fa la differenza fra vivere o morire ? – e non è una differenza da poco –” “Perché mi obbligano a pensare che per salvarmi io devo –implicitamente- trovarne tre che non si salvano? Perché mi devono obbligare a pensare in modo cannibalesco ?” “Perché, avendo in mano una scienza che sta avanzando, si deve pensare di essere arrivati invece che pensare che si deve andare ed essere un po’ meno sicuri di sé ?” “Perché ci deve essere differenza se io abito vicino a un ospedale o sono uno che viene da fuori ? Come faccio a visitare un parente se sto a tre ore da qui ?” “Chi dice che non servo a niente ? La persona malata magari si sveglia anche di notte, sarà piena di paura, forse non gli dispiacerà sapere che io sono qui - per quello che può sapere uno in rianimazione - (ma conta se può sapere tanto o poco? Tanta gente anche sana e sveglia capisce poco o niente, e nessuno pensa ad ucciderli)” “Perché allora non ci si pensa prima, quando si progetta un nuovo ospedale, o quando lo si ristruttura? Perché tutte quei problemi anche banali, come la presenza anche continua di persone care, la disponibilità di servizi e via via tutto il resto, non viene accolta come esigenza previa e normale?” Forse è tutto un problema di diritti e di trovare un modo ragionevole di vivere e operare.

19 Maggio 2011


La Foto Che Correda L’articolo è Munita di Copyright:
© Robert and Shana Parkeharrison, “Counterpoint” (New York)
Rintracciabile al Sito
http://www.parkeharrison.com/slides-counterpoint/index.html

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Un Nostro Grazie a:

In Focus:

-dr. Alberto Giannini
-dott.sse Clara Suppa e Carlotta Montinaro
-dr. Sergio Li Vigni
per i loro articoli

In Racconti a Margine:

-Prof. Lucetta Fontanella e Alessandro Vitale-Brovarone
-“Il Guardiano”
-dott.ssa Sally Calva
per i loro racconti

In Out of Border:

-A Emilia Maggiordomo e 
Laura Costa
per la Sezione Dedicata
alla Poesia
di cui sono le Curatrici

In Technè

-dott.ssa Daniela Moggi
-dr. Lucio Sarno

In Graffiti:

-A Kjeti Karlsen

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-Ugo Sottile 
per la Musica,

-Andrea Cracchiolo 
e Daniela Palma

per Student Corner 

-i Nurses Educator
 Ismett di Palermo

per la rubrica Nurse Science,

da loro curata.

-Ad Antonio Corrado

per la sua vignetta.
 

Fonti Numero 22 Ottobre 2012:

Si ringraziano altresì:

-Ospedaleaperto.com

-Assessorato Salute Reg.
Emilia Romagna

-La Rivista Janus

-Scenario/Aniarti

-IL Giornale Italiano di Medicina

del Lavoro Ergonomia 
PI-ME,

Pavia ISSN 1592-7830

http://gimle.fsm.it

-

Nottidiguardia.it

-Sole 24 Ore Salute

-www.regione.Toscana.it

-Biomed Central Open Acces

http://www.biomedcentral.com/

-Evidence
www.evidence.it


Aggiornato al: 16 Ottobre 2012



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