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26 luglio 2010
Medicina e Cinema
Si può fare
 
Un film di Giulio Manfredonia.

Approfondimenti:
Non ho l'arma che Uccide il Leone

Libro di Beppe Dell'Acqua
Ed. Hoepli

Recensione di S.Vasta



Con Claudio Bisio, Anita Caprioli, GiuseppeBattiston, Giorgio Colangeli, Bebo Storti.
Commedia, durata 111 min. - Italia 2008. - Warner Bros Italia data uscita 31/10/2008
Scarica la recensione e gli approfondimenti in .pdf qui

la recensione

Sceglie un argomento difficile da trattare, Giulio Manfredonia. Parlare della

malattia mentale al cinema non è mai cosa facile, anche se se ne parla per raccontare una storia che parla d’integrazione, di solidarietà, di modelli alternativi. I rischi della retorica o del qualunquismo sono sempre dietro l’angolo, trattando di matti. E l’inizio di Si può fare spaventa un po’, con il suo evidente essere apparentemente un Qualcuno volò sul nido del cuculo di casa nostra. Ma superato lo sconcerto dei minuti iniziali, ci si accorge che presto qualcosa cambia.

In primo luogo diviene evidente che i richiami al film di Forman (ma anche a 4 pazzi in libertà) sono non delle facili copie o dei plagi, ma degli omaggi bonari ed affettuosi; e che la storia che Manfredonia racconta ha alla base i pregi (oggi non indifferenti) della correttezza tecnica della regia (semplice ma non piatta) e della qualità delle intepretazioni (tutto il cast funzione più che bene); e non secondariamente quelli della delicatezza, della sensibilità e soprattutto del rifiuto della ricerca ossessiva del vero e del realismo, che – è bene ribadirlo – non significa rifuggire invece la verosimiliglianza.

Si può fare emerge quindi come un film che racconta una bella favola, capace di far ridere ma di toccare nei sentimenti; che racconta un’utopia possibile e disperatamente ottimista, di quell’ottimismo forse cieco ma necessario come il pane al giorno d’oggi.

Per questo si perdonano senza troppi problemi potenziali difetti come un quadro

eccessivamente aproblematico della malattia mentale, o alcune soluzioni un po’ facili e scontate di sceneggiatura. Si perdonano perché il quadro in cui s’inscrivono è sostanzialmente positivo, ma anche perché, da elementi come il setting storicotemporale del film, emerge piuttosto netta l’impressione che quella di Si può fare sia una storia che parli di qualcosa di ben più ampio che non solo temi (comunque importanti e correlati) come la malattia mentale o la solidarietà.

Il film si svolge infatti nei primi anni Ottanta, il decennio che da un punto di vista

socioeconomico ha gettato le basi per quelli a venire, che ha modellato la cultura sociale degli anni che stiamo vivendo. Gli anni Ottanta del riflusso, della sinistra che inizia a non saper più dove andare, degli ex di sinistra che diventano i simboli della Milano da bere, dei soldi facili, del profitto prima di tutto, del liberismo a tutti i costi.

La ricerca di Nello, sindacalista troppo moderno per il sindacato, troppo antiquato per il mercato, è quindi quella di una terza via attualissima. Di quello che oggi verrebbe definito capitalismo sostenibile. Del distacco dai modelli ideologici del passato ma non dai valori che servono per far funzionare una società.

Si può fare può essere definito semplicista, colpevole di una facile riduzione della complessità. Ma oggi, almeno al cinema, la prospettiva di un sogno e una speranza basati sui sentimenti e su valori solidi, è più che mai necessaria.

Si può fare. Yes We Can.

by Federico Gironi

http://www.comingsoon.it/Primo-Piano-Page.asp?key=427


Approfondimenti:



 

Beppe Dell’Acqua: Non ho l’arma che uccide il leone. Hoepli Edizioni

Recensione:

Allla fine degli anni ‘80 e nei primi anni ‘90 ogni tanto in rianimazione giungeva qualche "matto" ancora ricoverato in manicomio, che in seguito a patologie gravi insorte acutamente (in genere per un ictus cerebrale) aveva bisogno della nostra assistenza. Con il paziente arrivava anche la sua cartella sotto forma di diario clinico giornaliero o settimanale, veri e propri libri, tomi, dove era possibile rintracciare ed immaginare la vita di pazienti internati per decenni. Ne ricordo in particolare una, giunta per una grave emorragia cerebrale e che nel suo "incartamento" dopo il nome cognome e generalità, dopo le "impronte", seguiva una foto in BN fatta di faccia e di profilo che mostrava la paziente, ragazzina, con i capelli tagliati cortissimi e ancora le efelidi sul viso, che teneva davanti a se la lavagnetta dove con il gesso era scritto, alla meno peggio, il suo nome e cognome, come nei vecchi film polizieschi in bianco e nero; come fossero rinchiusi per colpa e non per malattia. Nell'incartamento, come motivo del ricovero di allora (anni 40) c'era scritto: "Ebefrenica; Si oppone con violenza all'autorità riconosciuta", malattia che, approfondendo, iniziata come drammatiche discussioni con i genitori, che oggi avremmo forse definita "un temperamento vivace e critico", poi si era trasformata in una violenta opposizione all'istituzione di cura dove era stata rinchiusa, il manicomio (aveva tentato più volte la fuga e non rispettava nè medici nè chi la accudiva) ed esitata anni dopo in un mutismo assoluto che era durato il resto della vita, un silenzio poi definito in cartella "quasi un guarire", "un ammendare le proprie malefatte e cattiverie".

Scrive Basaglia nella prefazione al libro di Beppe dell'Acqua suo assistente di allora (1979):..."Lo psichiatra non riusciva a "cogliere la "voce" del suo pazzo perchè per definizione l'irrazionalità della follia è la razionalità della malattia"...Quello che voglio dire è che per noi la follia è vita tragedia tensione. E' una cosa seria. La malattia mentale invece è il vuoto, il ridicolo, la mistificazione di una cosa che non c'è, la costruzione a posteriori per tenere celata, nascosta l'irrazionalità."... In questo libro... "Beppe ha voluto raccontarci delle storie come le ha vissuto da psichiatra che non capiva cosa volesse dire essere psichiatra, storie di internati che gliele raccontavano dato che non capivano cosa volesse dire essere internato. Questo livello tendenzialmente paritetico ha permesso a Beppe ed ai ricoverati di fare finalmente un discorso"

"Non ho l'arma che uccide il leone" è proprio il racconto delle vite dei ricoverati del manicomio di Trieste prima durante e dopo la sua chiusura. E' il resoconto accattivante profondo e curioso di una esperienza fatta alla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80 che ha segnato profondamente tutta la "Medicina" italiana e la Psichiatria in particolare. Nient'altro.

S. Vasta

La figura di Franco Basaglia



Una breve biografia di F. Basaglia la trovate nel .pdf da scaricare      

Tratta da www.francobasaglia.it/

Questa non è pubblicità commerciale, ma una segnalazione ai nostri lettori nel rispetto del progetto editoriale Timeoutintensiva (N° 8 Dicembre 2008).


 
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