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26 luglio 2010
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IL SENSO DELLA NOSTRA STORIA
M.Francesca Sapuppo
 
Tratto dalla relazione “Parlare con il malato che non c’e’” presentata al Congresso
“CORPO E PSICHE: UN UNICO INTRECCIO, UNA SOLA MEDICINA”
PALERMO 12-14 ottobre 2005



Se l’esistenza diventa vita per la storia che ci si costruisce dentro, allora sia la Psichiatria di collegamento che la II Rianimazione esistevano “prima” ma hanno dato vita a qualcosa, che è un esempio quasi unico nel panorama italiano, quando è iniziata un’intensa storia professionale di collaborazione tra le due U.O..
Una storia che inizia nel dicembre del 1997 e continua a tutt’oggi e che ha prodotto tante di quelle attività che mi è difficile elencarle tutte dettagliatamente. Sono state attività formative, condotte dal Collega Diego Bongiorno e di cui noi Operatori di Terapia Intesiva siamo stati protagonisti attivi, mettendo noi stessi, i nostri pensieri, le nostre idee a disposizione del gruppo in formazione.
Sono state esperienze di formazione partite quasi in sordina con l’inserimento di un momento di riflessione sugli ambiti più intimi del nostro lavoro all’interno di Corsi, per così dire scientifici, rivolti inizialmente solo agli Infermieri delle TI dell’ARNAS in cui lavoro.
Poi siamo passati attraverso attività di gruppo esperenziali a termine per noi Medici e a focus groups per Medici e Infermieri, in cui abbiamo approfondito i temi ed i momenti più profondi e difficilmente esplicitabili del nostro lavoro, quelli di cui non si parla o non si riesce parlare per il dolore intenso che se ne prova. Ancora abbiamo percorso esperienze molto particolari di coinvolgimento dei familiari dei nostri pazienti per arrivare a comprenderli meglio.
In collaborazione con la Neurorianimazione abbiamo sperimentato ampiamente le tecniche di outdoor-traning con l’uso di giochi didattici creati ad hoc.
Siamo infine arrivati all’ultima esperienza, svolta a giugno, di un Corso sui problemi delle scelte etiche in TI, in cui abbiamo usato metodologie didattiche di tipo narrativo filmico e testuale, stessa tecnica che intendiamo utilizzare insieme alla narrazione autobiografica all’interno di un Master programmato di formazione degli Operatori psicologici nelle situazioni di “disastri”.
Per il futuro abbiamo già in progettazione Corsi di approfondimento rivolti agli Operatori di TI sul concetto della coscienza e non coscienza in TI, e sui concetti di tempo e di storia nei gruppi di lavoro in TI.
Molti risultati di queste esperienze di collaborazione sono state oggetto di pubblicazioni scientifiche, ma ne voglio citare una sola, perché non ne esistono altri esempi in Letteratura. Sono, infatti, alcuni racconti nati dagli incontri di formazione per Medici della nostra TI effettuati nel 2000, condotti da Diego Bongiorno, e nati dal pretesto di scrivere un libro dal titolo “Parlare con il malato che non c’è “ sul tema della comunicazione tra gli Operatori di Terapia Intensiva ed il paziente in coma o tanto critico da non interagire.
Alla fine degli incontri ho raccolto una quantità di materiale immenso, “fatto di riflessioni, pensieri nuovi e cambiamenti” e rielaborando le registrazioni mi è venuta naturale quasi improvvisa la capacità di narrare racconti che poi sono stati condivisi con i colleghi. Quindi sono racconti in cui la voce narrante è mia, infatti lo stile narrativo è unico, ma gli elementi della narrazione, i pensieri o le parole sono appartenenti a me ed ai colleghi, che ci siamo raccontati senza pudori le nostre difficoltà. E sta proprio qui l’unicità, perché in Letteratura esistono molti Medici di TI che scrivono e si raccontano, ma non esistono racconti in cui a raccontarsi è un gruppo di Medici di TI.
Dico sempre “abbiamo” perché se è pur vero che Diego è stato ed è il conduttore di molte attività esperenziali, io e i Colleghi della mia U.O. siamo il braccio operativo, avendo io in particolare un’autentica passione per il gioco e la sperimentazione di tecniche didattiche poco convenzionali ed i miei Colleghi Rianimatori una disponibilità immensa a qualsiasi sperimentazione che metta in gioco la propria persona.
E poi, lo devo anche dire, a volte è necessario un traduttore per tradurre Diego o per rendere un idea di Diego un fatto. Questa è un’incombenza mia perché da Medico Intensivista sono abituata al “fare” e ho tempi attuativi molto più rapidi di quelli di Diego.
Ma cosa ha reso così particolare la nostra collaborazione, tanto da renderla esemplificativa per altre TI in Italia?
Io sono, come i miei Colleghi, un Anesestisista Rianimatore ed il mio, il nostro, è un lavoro difficile. Non solo difficile per la tecnica e la scienza sottesa, che è sicuramente la premessa indispensabile per non far morire un malato critico, è difficile soprattutto dal punto di vista umano.
E’ difficile quando ti avvicini ad un malato in coma “ che non c’è” e tu gli parli durante la visita clinica con la tua voce, con il tuo corpo e non risponde. La sua presenza è senza parole, è fatta solo di un corpo, di un monitor, di un respiratore meccanico e del tuo lavoro e di quello di tutti gli Operatori di TI, ed in quel corpo si sono fermati i ricordi e le attese. Allora è arduo non cedere o arrendersi rispetto a questi stati dove la relazione di cura è unilaterale o mediata dai parenti, e siamo noi stessi che ci costruiamo una storia.
Il mio a volte è un lavoro difficile quando nella stanza dei colloqui sto accanto ai parenti e loro vorrebbero sentirsi dire quello che io non posso dire, che Angela, Benedetto, Bianca usciranno dalla nostra Rianimazione e non da morti. Li guardi e provi un dolore intenso quando pensi come la morte o la sofferenza di un giovane sano entra inaspettata nel quotidiano di quella famiglia, e pensi e non lo pensi: io potrei essere al loro posto. E’ così difficile vedere gli occhi di un uomo che muore, è così doloroso guardare il dolore disperato di un genitore.
Ed ancora quanto ti senti a disagio e inadeguato a continuare a trattare alcuni pazienti in cui hai la sensazione di produrre un prolungamento del processo di morte anziché della vita, e li vedi morire lì in quei letti, soli, con sonde, tubi, devastati nel corpo senza poter dare loro una adeguata dignità del morire.
Ma il mio lavoro non è solo questo, sono anche malati che io, noi, facciamo vivere, malati e parenti che riescono a dirti grazie. Malati e parenti con cui crei una storia di cura al di là della loro vita o della loro morte e ti travolgono con eventi, esperienze, parole da cui ricavi il significato e il senso di ciò che tu fai.
Ma Diego e la Psichiatria di Collegamento cosa c’entrano in tutto questo?
Diego ed il suo discreto ed ostinato lavoro di Psichiatra di collegamento hanno consentito quello che io ho fatto: il dire, dire quanto si soffre in modo consapevole ed inconsapevole al contatto con la sofferenza ed il dolore dell’altro, paziente o parente. Ci ha consentito di riappropriarci di quella parte così profondamente umana del nostro lavoro non considerandola inferiore a quella scientifica. Infatti, tutti i pazienti e parenti vogliono Operatori che abbiano uno sguardo emozionato verso di loro, ma si tende nella formazione medica a razionalizzare ogni cosa, a privilegiare solo l’approccio scientifico/razionale, quasi che l’emozionalità fosse una deviazione patologica. La risonanza degli Operatori verso il malato presuppone un tempo ed uno spazio interno di accoglienza che non può essere ampliato dalla formazione scientifica ma da una formazione, che stia attenta anche alla componente “sentimentale” del lavoro degli Intensivisti, e Diego ci ha insegnato proprio questo a non alienare le emozioni dal nostro lavoro, anzi ci ha insegnato ad usarle.
Ma principalmente ci ha sfidato a mantenere nella nostra stessa Scienza medica un assetto scientifico che possa comprendere al suo interno anche “l’Uomo” medico.
E noi Rianimatori cosa abbiamo insegnato a Diego? A lavorare con noi in tempi e assetti estremamente flessibili, dato che il nostro lavoro di TI non consente, come spesso gli dico, “di tenere a lungo le porte chiuse per potere parlare”. Diego ha adattato sé e i sui metodi a noi e non viceversa. E poi principalmente ha imparato, come gli dico sempre, che lavorando con noi gli è consentito sorridere.

 
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