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Racconti a margine

Le Parole, Corpo Vivo.

14/12/2013  
di Leonora Cupane

Quando la parola si farà corpo
e il corpo aprirà la bocca
e pronuncerà la parola che l’ha creato,
abbraccerò questo corpo
e lo adagerò al mio fianco

Hezi Leskli*


Quando una persona è morta, si tende a non nominarla più. Solo lo stretto necessario e in fretta, di traverso. Nominare rinfocola ogni volta il dolore, lo stana da sotto, lo provoca all’esplosione. Ma non solo. Nominare imbarazza perché si ha paura del dolore degli altri. Non sappiamo se sono pronti, se è maturo il tempo. Temiamo di fare violenza. E poi non si sa come parlare, di qualcuno che è morto. Qualunque sfumatura della voce sembra impropria, inadeguata. Così, si finisce per tacere. La persona sprofonda in una regione di silenzio, e da lì non esce più, anzi con il passare del tempo scende sempre più in fondo, proprio al fondo di noi, nel nostro sangue, nel midollo osseo. E’ un fenomeno bifronte: nostro malgrado diamo definitivamente la morte a quella persona negandole di restare nelle nostre parole - specialmente le parole di allegria e riconoscenza - ma allo stesso tempo la inglobiamo lentamente in noi, comincia a vivere nel nostro corpo trasformandolo dal di dentro, vi rimane prigioniera; in ogni caso non la riconsegniamo alla vita.
E’ un processo automatico, spesso di intensità proporzionale al dolore; più il dolore è forte, più si cambia in una crosta fossile spessa e opaca, che pietrifica lo slancio della memoria. Io però mi ribello, sento la necessità di spaccare la crosta e uscire. Immergermi nel linguaggio vivificante del desiderio, rischiare. Aprire una via d’uscita attraverso le parole, che sia anche una via di ritorno. Sento che allontanare, o peggio ricordare e tacere, non condividere più con nessuno l’intensità del legame con una persona amata che è fisicamente morta, mi fa male, e questo male cresce negli anni e sviluppa una tristezza che avvolge ogni mio muscolo, fa sentire morta anche me.
Ho sempre creduto, come i primitivi e i bambini, che le parole sono corpo, hanno carne e vita - assumono le proprietà delle cose cui si riferiscono. Le parole poetiche danno questa sensazione più di tutte le altre, per la loro corporeità e sensorialità, per i loro accostamenti spiazzanti: rinominando il mondo lo ricreano, gli danno nascite continue, lo fanno organismo che cresce e respira. Borges ne “L’invenzione della poesia” diceva che la poesia riporta il linguaggio alla sua fonte originaria. “Si direbbe che nel linguaggio le parole siano cominciate come qualcosa di magico. Forse c’era un momento in cui la parola luce sembrava risplendere e la parola notte era buia”. La parola genera movimento: è sonorità, vibrazione, onda, ancor prima che significato. Dopo un silenzio di anni, riprendere a parlare di una persona amata che è morta forse è possibile solo se si riconosce (e si restituisce) alle parole questa presa fisica, se si riesce a mettere in gioco tutta la sensualità e vitalità della propria voce, la capacità di richiamare l’altro con la forza evocativa della lingua intima e familiare intessuta nell’infanzia. Sia frutto di un miracolo improvviso o di un processo lento e sofferto, la ripresa della parola è sempre l’affermazione di una necessità: ri - generare con il linguaggio il corpo della persona morta, un corpo caldo, fatto di suoni e immagini, che può vibrare, pulsare, generare a sua volta nuove immagini, farsi ancora presenza viva.

Mi sento molto sola da quando Francesco è morto. Non ho mai potuto accettare la sua sparizione fisica dalla terra, e ho subito capito che si trattava di un dolore irrimediabile e senza ritorno, che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita continuando a modificarla dal nucleo, incessantemente; ho sentito anche che era inevitabile, che era giusto così. Ma quello che mi tormenta, sempre più con il passare degli anni, è non riuscire a dire più niente di lui. Della sua morte si è discusso a lungo, come sempre si fa cercando di ripercorrere gli ultimi momenti, di indagare, di scandagliare le possibilità che potesse andare diversamente. Si ha l’illusione che parlando di quel che è accaduto poco prima della fine, questa sia rimandata indefinitamente - venga come trattenuta in un interstizio ai margini del flusso del tempo. Ma non ho più potuto parlare di com’era lui. Delle poesie e musiche che amava ascoltare. Del rumore dei passi. Della sua voce, dal timbro aspro, il volume spesso troppo alto. Della sua parlata, con le “o” molto larghe. Del suo sorriso che gli incendiava gli occhi prima che le labbra. Della sua timidezza brusca, dissimulata da una risata maliziosa da bambino. Delle cose che costituivano il suo mondo. Dei suoi scatti e dei suoi silenzi. Mi sono raggomitolata in un mutismo che si lacera solo con immensa fatica, a tratti, fra pochi di noi. Ma soprattutto non ho mai più potuto ridere o sorridere di lui insieme a qualcuno, ricordare la sua bellezza devastante – non trovo altri termini possibili – che un tempo, nonostante fossimo cugini, mi faceva dire che era l’uomo più bello del mondo, e lo penso ancora (quando ero bambina, ricordo che B. diceva: Francesco è bello fuori e bello dentro).
Sembra che ricordare con allegria una persona morta tragicamente sia fuori luogo. Ma forse è possibile che io sosti nel fuori luogo e nel senza tempo di una rimembranza che per un attimo allenti la presa dell’angoscia e lasci rimescolare dolore e piacere, dando luogo e tempo a una felicità del dire, del potere finalmente dire di lui con pienezza.
Sembrava antico, Francesco. Aveva qualcosa di semplice e scarno, e insieme ricchissimo. Per me era come se odorasse di viottoli di campagna, ruderi e ortiche, frescura di convento, isole ventose e rocce. Era altissimo e lo ricordo spesso camminare curvo per non urtare soffitti, ma è una memoria confusa, forse non corrispondente al vero. Ogni momento vissuto, era come se lo colpisse al cuore, a volte lo trafiggeva. Sentivo l’intensità della sua presenza dentro la vita. Il suo sguardo ondeggiava fra il serissimo e il ridente, ma sempre lampeggiava, scoperchiava e smascherava. Era franco e pudico insieme, la sua dolcezza era brusca, e i suoi gesti celavano e insieme rivelavano una densità affettiva e un’abbondanza interiore straripanti. C’era in lui una particolare sorta di umiltà, un profondo senso dell’altro, dell’interlocutore. Riconoscevo in lui – fatta di sottintesi - una fedeltà rara  alle memorie condivise, una capacità autentica di custodire in sé le esperienze, come il pane di casa nella madia, il rosario della nonna, le ciocche di capelli nei medaglioni, le lettere del primo amore. La spiritualità e la sensualità in lui ardevano inseparabili, e questa era la sua caratteristica più straordinaria, quella che lo faceva risplendere dentro, visibile solo in controluce come una palla di fuoco nel petto, una solarità rivoluzionaria e radicale, non autorizzata, ribelle, erompente dal centro della terra, che rimanendo compressa  - salvo rare esplosioni - era costretta a purificarsi e cristallizzava in preghiera, in richiesta di perdono, ma senza mai raffreddare: quella carnalità vietata, mutata in misticismo, ha conservato nel tempo l’originario fuoco vitale e posso ancora sentirlo, esattamente come se lui fosse qui con me al centro della stanza, perché era un fuoco irriducibile. Forse la difficoltà di questo processo trasformante - cambiare la carne in spirito, rarefare e disperdere la fiamma, mutarsi in angelo, espiare la colpa d’una vitalità passionale fuori luogo - era un fardello che non riusciva a sostenere.
Come tutte le persone buone e completamente innocenti, sembrava portare tutte le colpe dell’umanità nella testa, nel petto, nello stomaco. La sua capacità di abitare la carne delle cose lo ha portato sempre più a soffrire - in prima persona, nel corpo- per dolori che si poteva pensare non gli appartenessero. Era come se chiedesse perdono a nome del mondo.
Per lungo tempo, da ragazzo, Francesco ha amato, ascoltato e cantato una canzone: E la pulce d’acqua che l’ombra ti rubò/E tu ora sei malato/E la serpe verde che hai schiacciato non ti perdonerà./Sull’acqua del ruscello forse tu/ Troppo ti sei chinato/ Tu chiami la tua ombra ma/Lei non ritornerà./E ora tu devi a lungo cantare/Per farti perdonare/E la pulce d’acqua che lo sa/L’ombra ti renderà.
Dopo la sua morte sono stata per molto tempo senza poter piangere. Ero diventata di stoffa e segatura, come prosciugata di tutto.
Quando ho riascoltato, ricercandola appositamente, questa canzone, ho riavvertito tutto l’odore dell’uva fragola e della terra bagnata e la sensazione dei ciottoli rotondi e della polvere sotto i piedi nudi, e ho rivisto i ciuffi di menta sotto la scala di metallo che portava in terrazza, e l’arancione delle bacche, e il nero che i pinoli raccolti alla curva lasciavano sulle mani. E ho risentito Francesco cantare, ho pianto e non potevo più smettere, qualcosa si è sciolto e ha ritrovato fiato. Ho potuto avvertire finalmente quanto mi mancava. Quanto mi manca. Quanto è difficile accettare di non poter sentire più su di me la luce limpida e penetrante, mai filtrata, ma allo stesso tempo mai spietata - riscaldata da un amore”assurdo”, per usare un aggettivo a lui familiare - che  sapeva proiettare su chi gli stava accanto, specchiandolo e illuminandolo da dentro (negli ultimi anni, ormai profondamente trasfigurato dal malessere, al tempo stesso era ancora più risplendente di quella luce, che sembrava ora promanare dalla cicatrice sulla fronte e irradiarsi tutto intorno; guardandolo a volte pensavo che fosse diventato amore puro).
So che al cimitero, dove vado una volta l’anno, ci sono solo le ossa. Ma ho l’impressione che perfino le ossa irradino quell’amore inspiegabile che ogni particella del suo corpo vivo riusciva a esprimere. Credo al corpo, non ho mai avuto l’impressione che una persona morta fosse solo un sacco vuoto o un involucro irriconoscibile. Ho amato i corpi morti di mia zia e di mia nonna fino all’ultimo e ho carezzato le loro mani fredde, ed è un buon ricordo.
Francesco da morto non ho potuto vederlo. La notizia mi ha raggiunta soltanto il giorno dopo e quel che ho visto è stato solo una bara marrone e lucida, qualsiasi, troppo piccola per contenere un uomo tanto alto. Da bambina, lui adolescente, mi sollevava da terra e faceva volare e non mi rimetteva giù, e allora mi arrabbiavo e graffiavo e sputavo, e molti anni dopo con la sua voce aspra e sbrigativa mi disse che allora ero un porcospino selvatico, e poi ero diventata una gran sentimentale, quasi troppo, sottolineava con un mezzo sorriso ironico. Non ho mai capito se fosse contento del cambiamento. Un giorno -avevo quindici anni credo, lui ventitre- ero andata a trovarlo nella stanzetta microscopica della casa in campagna:  proprio lui, il più alto di tutti loro, aveva scelto di trasferirsi in quello spazio in cui entrava a stento. Sembrava una celletta monacale, nuda e semivuota, ma credo che abbia passato momenti intensi e felici, là dentro, perché era il suo unico spazio di solitudine. Soltanto quando era lì mi sembrava completamente libero. Ero andata a trovarlo, e leggeva. Era un po’ bruciato dal sole. Mi sono seduta sul bordo del letto dov’era disteso, il cuore mi batteva. Non sono mai stata innamorata di lui, ma era l’uomo più bello al mondo, e stargli così vicino era quasi insostenibile. Non ricordo bene cosa ci siamo detti quel pomeriggio. Ma ricordo che abbiamo parlato - specialmente lui, di una storia d’amore complicata e irrisolta – e io ascoltavo. Ricordo piccole cose. Che io devo avergli detto frasi un po’ seduttive, tipiche delle provocazioni dell’adolescenza, e lui mi ha guardata a lungo e sembrava turbato, ma non infastidito, semmai incuriosito e sorpreso di questo piccolo animale selvaggio diventato quasi donna che gli rivolgeva tante attenzioni. Ricordo che siamo stati anche in silenzio, vicini - ma senza mai toccarci - e  potevamo sentirci respirare. Che andandomene gli ho dato un bacio sulla guancia, e rialzandomi sentivo la faccia diventare tutta rossa. Ma soprattutto ricordo che in entrambi è rimasta a lungo la sensazione di avere sfiorato un limite, di essere arrivati a una soglia. Di aver vissuto un momento di contatto che ci ha legati per la vita in un’intimità sottile, nutrita, negli anni, da rari incontri e poche parole che toccavano nel profondo, rese possibili da una reciproca e tacita autorizzazione. Per me Francesco è ancora lì, nella sua stanzetta fresca che lo ha reso libero, sdraiato sul letto a leggere con un’espressione grave e quella luce intorno, una luce di cui non è mai stato consapevole.
Adesso, nominandolo come se fosse presente, con la stessa festa dei gesti e la stessa contentezza che avevo nel vederlo vivo, muovo questa polvere e queste acque morte: ridò vita al suo essere e lui smette di sprofondare in me. Riaffiora. Lo restituisco alla vita, lui esce dalle mie viscere e il suo corpo prende forma attraverso le parole, che leniscono le sue ferite e gli accarezzano la testa. Posso sentire brillare il suo essere. Qualcosa si solleva, si trasforma. E’ un movimento piccolo, come sollevare con due dita una pellicola trasparente che si è formata su un liquido. Il liquido riprende a respirare, anche se apparentemente quasi nulla è mutato. Sento quanto questo non sia illusorio; quanto davvero il linguaggio sia intessuto del potere magico della creazione. Dire di Francesco, seppur solo queste poche cose confuse, mi consente di pescare e filtrare scaglie minerali dal fiume delle dimenticanze, di recuperare qualche scheggia della mia visione interiore di lui.
Al cimitero vado ogni diciannove ottobre, per l’anniversario del suo ultimo giorno sulla terra. Vado lì e mi siedo vicino alla tomba, che ha un aspetto abbandonato, il cancelletto arrugginito un po’ divelto, erbe selvatiche intorno, e mi ricorda tanto lui, la sua trascuratezza così amabile e naturale. Resto lì ore, a parlargli piano e sussurrargli poesie. Alcune sono quelle che lui amava - Pavese, Campana, Orazio - altre sono quelle che amo io, gliele porto in regalo. Di solito non ci sono, sulla tomba, fiori o segni di passaggio umano. C’è una solitudine fonda e piena, dove provo a sostare. L’anno scorso  invece - piovigginava, ricordo, ma mi sentivo bene, ero come a casa- per la prima volta ho trovato qualcosa: una fotografia e un foglietto attaccati con il nastro adesivo trasparente e protetti da un foglio di plastica. La pioggia battente e il sole avevano scolorito la fotografia, e il foglietto era quasi illeggibile. Ma era una poesia. Ricordo solo alcuni frammenti, in maniera molto imprecisa, qualcosa come: Francesco, noi due a vent’anni nei luoghi del mito, parlando dell’esistenza e di poesia - è così che voglio ricordarti. E poi il nome dell’amico, G. Queste frasi, che allora avevo imparato a memoria e poi scordato, il cui ritmo si è depositato in me come un mantra a furia di ripeterle, hanno avuto su di me l’effetto di un cibo di cui non sapevo neppure quanto fossi affamata.
Non finirò mai di ringraziare G. - che non ho mai conosciuto, di cui non sapevo neppure l’esistenza- per le sue parole, che mi hanno fatto sentire in compagnia, come accolta nel cavo di una mano e accarezzata, e hanno ricreato subito in me Francesco nella sua realtà concreta, materiale, irripetibile. I suoi occhi verdi e castani come foglie alla fine dell’estate, i passi e i movimenti nervosi, lo scintillio dei denti nella risata, i riccioli che aveva un tempo.


*Hezi Leskli (1952-1994) was born in Rehovot, Israel. He studied dancing and art in the Netherlands. He worked as a painter and a choreographer, and published four books of poems. In 1992 he published Dutch Poetry - Four Imagined Dutch Poets and a Nonexistent Israeli Poet.

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-i Nurses Educator Ismett
di Palermo

per la rubrica
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da loro curata.

-Ad Antonio Corrado
per la sua vignetta.
 
Fonti N.°26, DICEMBRE 2013

Si ringraziano altresì:
-Ricerca & Pratica

-Le Infezioni in Medicina

-Il Pensiero Scientifico Editore

-IL Giornale Italiano di Medicina

del Lavoro Ergonomia PI-ME 
Pavia

ISSN 1592-7830

http://gimle.fsm.it

-Intensive Care Med 2004
 Ed. Italiana
-La Fondazione Gimbe
-europeantransplantcoordinators
www.europeantransplantcoordinators.org
-Biomed Central Open Acces

http://www.biomedcentral.com/

-Evidence 
www.evidence.it
-American Council on Bioethics
www.bioethics.gov  
-PLOS ONE | www.plosone.org
-J S C Med Assoc.
http://publicaccess.nih.gov 

 

 

Ultima Modifica 23 Dicembre 2013



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