numero 14
26 luglio 2010
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CODICE ROSSO
racconto

di dr.ssa S. Zambuto
IIa Rianimazione ARNAS Ospedale Civico Palermo
Maggio 2009



 

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Era una normale notte di guardia al 118. Certo, di sabato gli incidenti stradali sono più frequenti ma, oggigiorno, i giovani escono tutte le sere, fanno tardi, bevono e corrono in macchina di sabato ma anche di lunedì. Di questo mi sono convinta a furia di fare notti in ospedale e al 118: una cosa sono le statistiche, un'altra le mie notti di guardia.
La chiamata arriva intorno alle due del mattino: Gravissimo incidente in autostrada, più persone coinvolte.
Arriviamo sul posto e la polizia ci indica il fondo di una scarpata: laggiù, dicono, c'è una macchina accartocciata. Un poliziotto è fermo lungo il pendio accanto ad un albero, mi fa cenno di scendere: impigliata tra i rami, c'è una ragazza.
Mi avvicino, sembra viva; mi avvicino ancora di più: sì, è viva. O meglio, respira. Dico ai soccorritori, rimasti in attesa sul ciglio della strada, di provvedere a svincolare la ragazza. Io, intanto, continuo la mia discesa giù nella scarpata: Ci sono altri ragazzi, sento le loro urla, gridano aiuto.
E' buio, il terreno è molto ripido e mi scontro con cespugli, rami, montagne di foglie secche. Fortunatamente, sono insieme ad un poliziotto che mi fa strada con la torcia; tengo la mano sulla sua spalla, a mò di bastone. Così mi sento più sicura. Quantomeno, sono sicura di non cadere perché, per il resto, non sono sicura di niente: Saprò valutare correttamente i feriti e stabilire per ciascuno le priorità? Saprò applicare i cosiddetti protocolli del trauma della strada? Saprò stabilire per ogni ferito l’ospedale giusto di destinazione?
Oltre all'insicurezza, mi assale un senso di solitudine. Voglio dire, in ospedale è diverso; lì, almeno, condivido le mie incertezze con qualche collega. Magari anche lui ha le sue perplessità ma due insicuri insieme fanno un po’ di sicurezza. Sulla strada, invece, gli altri aspettano le mie decisioni. Infermieri, soccorritori, agenti di polizia, tutti attendono le mie indicazioni. Non condividiamo, loro si limitano ad eseguire. La notte, poi, mi impedisce di vedere bene intorno a me e ciò mi fa sentire ancora più sola.
Arriviamo finalmente giù, io e il poliziotto: la nostra vista è dominata da un ammasso di lamiere e dentro, in quello che doveva essere il posto di guida, un giovane.
Che fosse morto si vedeva lontano mille miglia ma sento il bisogno di accertarlo controllando l'assenza delle pulsazioni sul suo collo.
Accanto a ciò che resta della macchina, distesi sul terreno, un ragazzo e una ragazza. Entrambi sono due maschere di sangue; lui, con voce tremante, col terrore negli occhi, dice di stare bene; lei piange. Controllo i loro polsi radiali, conto i loro battiti, cerco di tranquillizzarli dicendo che va tutto bene e li affido ai soccorritori delle altre ambulanze che intanto sono sopraggiunte, mentre io mi dirigo dalla prima ragazza, la più grave, quella che nella furibonda corsa della macchina giù in fondo alla scarpata, era sbalzata violentemente fuori dall'abitacolo ed era rimasta ancorata ad un albero.
E' molto giovane, diciassette o diciotto anni, non di più. Il corpo è quello di una donna ma ha il viso di una ragazzina. Porta una collana dalla quale pende un ciondolo scivolato nell’incavo sinistro tra il collo e la tavola spinale. Sulle labbra si nota ancora il rossetto, la pelle odora di una fragranza sicuramente scelta con cura, magari per attrarre l’attenzione del suo ragazzo preferito. Sì, perché a diciotto anni sei sempre innamorata, innamorata di un ragazzo bello, giovane, forte, immortale come te.
Le condizioni mi sembrano subito drammatiche: è in coma, con uno squarcio ampio e profondo sulla testa, le pupille sono dilatate. Adesso, penso, do inizio a un iter che potrà portare ad una forma di vita che probabilmente non avrà più nemmeno lontanamente le sembianze della vita precedente. Una vita non degna di questo nome. Ma, prima di tutto, chiunque, istintivamente, tifa per la vita, sempre e comunque. Poi, sono un rianimatore e, come un automa, inizio le manovre rianimatorie. In sequenza: intubazione, accessi venosi, sondino naso gastrico... E man mano procedo, aiutata dall’infermiere e dai soccorritori, comincio a crederci. Man mano vedo stampigliati sul monitor la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la saturazione dell’ossigeno comincio a credere a ciò che sto facendo, alle codificate e standardizzate manovre rianimatorie. E ti accorgi che, se tu ci credi, gli altri dell’equipaggio ci credono. Col tuo sguardo, la tua voce, il tuo agire contagi tutti. “Dottoressa, al suo via, partiamo”. Sì, un’ultima occhiata ai feriti coscienti barellati sulle altre ambulanze e partiamo. Anzi, corriamo, perché i minuti sono preziosi, corriamo su questo asfalto apparentemente innocuo.
Al pronto soccorso ci accoglie una collega anestesista che conosco, è brava e tiro un sospiro di sollievo, perché, adesso, quella ragazza un po’ mi appartiene e sono contenta di affidarla ad una collega che conosco, che fa bene il suo lavoro, che continuerà il mio di lavoro, senza discontinuità, e tutto non sarà stato vano.

All'alba la nostra ambulanza arriva in postazione. Il cielo sta schiarendo, e fra non molto la luce spazzerà via la notte e tutto ciò che essa contiene. Cancellerà le immagini di morte e riporterà la vita.
Ora posso sdraiarmi e dormire un po’. La smonta arriva alle nove.
Mi sveglia una telefonata. Dalle sottili pareti della mia stanza sento il soccorritore montante parlare con un medico, perché dice: "Va bene, dottoressa, riferisco”. Sono in dormiveglia, non capisco bene il contenuto della telefonata. Riferisco. A chi? E cosa?
Mi alzo. Non so se dopo pochi minuti o dopo un'ora dalla telefonata. Mi sistemo alla meno peggio. Le occhiaie non vanno via con l'acqua del rubinetto. Noto la presenza di foglie e terriccio sparsi qua e là.
Esco dalla stanza, il soccorritore della telefonata non mi fa nemmeno aprire bocca: “Dottoressa, ha chiamato la sua collega a cui lei stanotte ha consegnato la paziente. Mi ha detto di riferirle che, purtroppo, la ragazza è deceduta. Non ce l’ha fatta”.

Non penso a niente in quel momento, non mi viene di dire niente. Provo solo nausea, un terribile senso di nausea.
Alla smonta, mi metto in macchina, torno a casa e faccio una doccia tiepida, come faccio tutte le volte che smonto da un turno di lavoro. La vita, che avevo percepito alle prime luci dell’alba, imperterrita, continua.


 
 
 
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