26 luglio 2010 Lo studio del campo emotivo nel determinismo dell’azione terapeutica. D.Bongiorno, M.F. Sapuppo et AL
26 luglio 2010
Studio del campo emotivo nel determinismo dell’azione terapeutica. SMART. Comunicazioni libere. Milano 2001
Per cercare di comprendere come le emozioni intervengono nell’orientare l’azione terapeutica degli operatori di Terapia intensiva abbiamo iniziato il nostro studio usando, come momento privilegiato di osservazione, il momento delle “consegne” tra i Medici al cambio del turno di lavoro. Infatti, siamo partiti dall’ipotesi che questo non è solo un luogo di scambio di informazioni cliniche ma anche di emozioni... Da questa osservazione si è rilevato che il Medico nel riferire le notizie e le condizioni cliniche dei pazienti non limita la sua comunicazione ai “fatti verificabili” clinicamente o strumentalmente, e ciò accade nonostante che la Terapia Intensiva sia una specialità altamente tecnologica. La tecnologia permette di esplorare velocemente e anche quantitativamente le funzioni vitali e consente di comprime molto i tempi diagnostici/terapeutici, e quindi di verificare spesso rapidamente ciò che si osserva o si opera.
Il Medico nella sua comunicazione riferisce soprattutto i “segni” dimostrativi, anamnestici e prognostici attribuiti e/o ricavati dalla osservazione del malato e dalla discussione con i familiari, e quindi li utilizza per confermare ipotesi ed in definitiva per giustificare le sue scelte di cura.
Ma oltre a ciò il curante, soprattutto quando vi è stata una intensa relazione di cura e di accudimento con il paziente, “espande la sua comunicazione nella supposizione di sintomi” che attribuisce verosimilmente al paziente, anche quando da questi non possono essere riferiti perché in coma o in condizioni estremamente critiche. In questi casi avviene ciò che accade nella relazione madre/figlio, in cui ad esempio la madre suppone che il figlio abbia dolore o altro. Poi il Medico, come in qualsiasi ragionamento clinico-medico, ha la capacità di dare al “supposto sintomo” valore di “segno”, e da ciò istaurare un iter diagnostico o terapeutico.
Ancora, il Rianimatore esprime il suo vissuto con il malato, con i familiari, con se stesso e con la realtà che lo circonda, dando infine un senso storico ai fatti esposti. Questa narrazione è tanto più intensa e lunga quanto più il Medico ha costruito dentro di sé un tempo ed uno spazio interno nei confronti del paziente, e quanto più alta è la capacità di ascolto dell’altro Medico che riceve “consegne”. Questa narrazione spesso non si esaurisce nel singolo turno ma prosegue, ed è possibile farla solo se è stata accettata all’interno del gruppo la possibilità di espressione e di condivisione di esperienze dolorose.
Non alienare le emozioni nel lavoro, poter scambiare oltre alle informazioni cliniche anche emozioni, sentire il contatto emotivo con il collega e con il gruppo, consente all’operatore precedente o successivo di sentirsi meno isolato nelle scelte terapeutiche che ha effettuato o che si appresta a fare.
Infatti, per un operatore di Terapia Intensiva, che costantemente prende decisioni vitali, l’uscire dall’isolamento comporta il potere attivare uno scambio fiduciario con l’altro che attenua il timore della responsabilità.
La responsabilità deriva non solo dall’emergenza, ma anche dal trattare pazienti con cui è quasi nulla la possibilità di interagire; questa mancata interazione spesso comporta, come si è detto, la traduzione unilaterale da parte dell’operatore di “sintomi” in “segni”, o l’attribuzione di un “segno” senza una possibile conferma. Questa operazione, il più delle volte estremamente veloce, comporta l’assunzione di un carico di responsabilità che, se non trova un’area di elaborazione, provoca un sovraccarico che può condurre alla perdita di iniziativa e alla sterilità lavorativa.
Le emozioni sono parte integrante della vita e non possono essere escluse. L’alienazione dell’emozioni nel lavoro porta al progressivo isolamento dell’operatore, che arriva a sentirsi più un meccanismo che un interprete del lavoro stesso, inizia a perdere iniziativa, diventa sterile con un decadimento complessivo delle capacità cognitive globali.
Il momento delle consegne è “un sentire” prima che un ascoltare, è un luogo in cui si sente il collega. Qui si può sentire di non essere soli dal momento in cui si può condividere una esperienza. Se c’è un gruppo di lavoro, con cui si è in contatto anche emotivo, allora, anche nei momenti di maggiore solitudine, si può sentire di non essere troppo soli, si può sentire la fiducia degli altri nella condivisione delle scelte.
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