«C'è
stato un tempo in cui ero un uomo, qualsiasi cosa questo significhi. Poi le
cose sono cambiate. La malattia mi ha cambiato».Parole che non t'aspetteresti
da quello sciupafemmine seriale di Dylan Dog, la cui principale occupazione è
sempre stata quella di sedurre le clienti. Un malessere improvviso – non a caso
mentre è a letto con una di loro – e l'indagatore dell’incubo, a suo agio tra i
morti viventi, si ritrova suo malgrado vivo morente. L'arrivo in ospedale, «il
luogo dove si è più soli al mondo, l'avamposto prima del nulla», gli
accertamenti medici sempre più invasivi che gli rivelano una massa oscura
nell’addome. Ancora: l'operazione chirurgica, il deperimento organico, lo
sbriciolarsi delle difese, il corpo inerme e spoglio, attaccato a una macchina
per alimentare quel poco di vita rimasta.
Luca Telese, sul giornale
il Fatto quotidiano di qualche giorno fa, consigliava una lettura
"politica" per quest'ultima storia di Dylan Dog «agli esponenti del
centrosinistra e non solo». Se non altro per “tenere in vita” qualche
perplessità, perché come aveva detto Gianfranco Fini con riferimento al “caso
Englaro”, c'è davvero da invidiare chi ha certezze su qesti fatti. «Ho solo
dubbi – disse il presidente della Camera – e uno su tutti: qual è e dov'è il
confine tra un essere vivente e un vegetale?».
In questo albo di
gennaio, il 280 della serie, intitolato Mater Morbi, l'ex agente di Scotland
Yard ed ex alcolista – abituato a disinvolte discese negli inferi per
combattere demoni d’ogni specie – varca una soglia, se possibile, più temibile:
quella che separa i sani dai malati. «Uno spazio infinito che neanche l'amore
può colmare, perchè chi si ammala è irrimediabilmente fuori dal consorzio umano».
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