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N° 13, Aprile 2009, Racconti a Margine
Dal seminario “Le decisioni di fine vita: le dimensioni cliniche, le
questioni etiche”, svoltosi nell’ambito del Master “Offerte dei servizi
sanitari, comunicazione e bisogni dei cittadini: l’Umanizzazione per la tutela
della salute” (Direttori C.Muscarnera e F.Prandi, Tutor D.Falconeri, I.Parenti,
Responsabile del
Seminario Assunta Tolentino),
svoltosi il 19 novembre 2009, presso il Centro di Formazione Cefpas di
Caltanissetta

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Ci sono storie che ti vengono incontro anche quando
tu hai fatto andare avanti il tuo tempo senza una storia.
E ciò che mi è accaduto quell’estate torrida quando
ho aperto la porta al suono del citofono sbagliato e il vento caldo di scirocco
con tutto il suo pulviscolo è entrato nei miei occhi insieme a quella luce
bianca quasi fosforescente di dopo ferragosto.
Questi sono giorni nella mia terra che è meglio
lavorare con l’aria condizionata perché anche a mare si sta male.
La barella pigolante porta un lenzuolo, il corpo è
così magro da non distinguersi. Accanto sulla barella, spinta dal portantino,
la mano di quello che per me è un ragazzino: poca barba, magro magro, non
troppo alto con occhi grandi e scuri e le sopraciglia folte, tipiche del
meridione.
“Mi scusi, mi hanno mandato qui con mia mamma per
fare la tracheotomia”
E che ne sa questo bambino di tracheotomia?
Suona il telefono ed il collega della Terapia
Intensiva Respiratoria si scusa
per essersi dimenticato di avvertirmi che sarebbe arrivata dalla provincia una
paziente con la SLA per fare la tracheotomia. Poi se la sarebbe presa in carico
lui per mandarla successivamente a casa.
Non faccio in tempo a chiudere il telefono che sento
freddo, io che sento freddo solo quando sono ammalata. Sento il cuore che se ne
andato nella testa.
Mi avvicino e domando: “Dove è papà?”
“No, sono solo” - “Sta per arrivare?” - “No, sono
solo. Siamo solo io e la mamma, mio papà è morto” - “Non c’è nessun altro?” - “No”
- “Ma quanti anni hai?” - “Ne ho fatti diciotto”
Sollevo il lenzuolo e vedo quello che ho visto anche
io a venti anni. Mio padre è morto di SLA.
Uno scheletro ricoperto di una pelle rinsecchita,
gli occhi due fossi, gli zigomi di fuori, i denti esposti. Lui che era stato un
uomo corpulento con dei vivaci occhi blu. Immobile nella sua totale paralisi
del corpo, l’unico movimento consentitogli dalla malattia aprire e chiudere le
palpebre. Anche la parola gli aveva tolto la malattia, e da lì a poco, prima
della morte, la possibilità di mangiare, lui così goloso, ed il respiro. Quello
che la malattia non gli aveva tolto era la coscienza, poteva vivere il dolore
del suo corpo e della mente, poteva vivere ogni giorno la difficoltà di farsi
comprendere. Gli era difficile finanche piangere.
Quella madre era identica, solo i suoi occhi erano
scuri come quelli di suo figlio.
Mio padre aveva potuto decidere, sapeva come sarebbe
morto, in insufficienza respiratoria ma in coma, quel sonno che forse è stato
inventato per non sentire troppo la morte.
Ci aveva fatto promettere che mai l’avremmo portato
in Ospedale e che mai l’avremmo dovuto far sopravvivere oltre come un detenuto
del suo corpo, con ogni diavoleria tecnica del momento.
Era stato accontentato, c’eravamo tutti alla sua
morte accanto al suo letto.
NON SO CHE FARE.
“Ma la mamma voleva fatta la tracheotomia?” chiedo.
Nessuno le aveva detto come si muore di SLA, nessuno
le aveva dato la possibilità di decidere.
Guardavo quel ragazzino. Poteva essere mio figlio ed
io essere sua madre.
Fare una tracheotomia e condannare quella donna a
qualcosa che forse non avrebbe voluto.
Fare la tracheotomia e condannare un ragazzo alla
stessa condanna di sua madre, una assistenza domiciliare quasi ventiquattro ore
su ventiquattro, considerando la carenza cronica di strutture nella nostra
isola. Condannarlo a lasciare la sua giovinezza per assistere per molto tempo
una mamma con la tracheotomia, un respiratore artificiale, una sonda nella
pancia per mangiare, con pannoloni da cambiare, senza un movimento, senza una
parola, solo due palpebre da aprire e chiudere per comunicare e poi più
neanche questo.
Ma la sua mamma avrebbe voluto sopravvire così
divorando la vita di suo figlio?
Io mamma come lei lo vorrei ?
E lui solo senza neanche quella “piantina “ da
accudire giorno per giorno che avrebbe fatto? Che avrebbe fatto senza dire: “Mamma
ora ti giro… ora ti gratto… ora ti lavo… ora ti aspiro i polmoni…” Sarebbe
rimasto solo, ma non sarebbe prima o poi rimasto solo? La SLA non perdona, è
una malattia terminale.
Guardavo lei, semiaddormentata dall’insufficienza
respiratoria, guardavo lui con quella valigetta con le cose della sua mamma.
AIUTO!!! NON VOGLIO, NON RIESCO, NON POSSO
DECIDERE!!!
Forse esiste un Santo degli anestesisti,
rianimatori.
Si avvicina il mio collega pomeridiano che deve “darmi
la smonta”. Pensaci tu.
Io vigliacca lo lascio da solo, io che cerco sempre
di condividere le scelte.
E’ il mio ultimo giorno, vado in ferie.
Non ho mai voluto sapere come era andata a finire.
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