numero 14
26 luglio 2010
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La metodica rianimatoria nella chirurgia polmonare a lume di 10 anni di esperienza
G. Mirto
 
"La Chirurgia Toracica" Anno XV, Fasc. 1, Feb. 1962. Edizioni "La Chirurgia Toracica" Milano

ISTITUTO DI CLINICA CHIRURGICA GENERALE E TERAPIA CHIRURGICA
DELL'UNIVERSITÀ DI PALERMO
Direttore: Prof. S. LATTER!

OSPEDALE SANATORIALE « G. F. INGRASSIA » DELL'I.N.P.S. — PALERMO
Direttore: Prof. N. SANGUIGNO

LA METODICA RIANIMATORIA NELLA CHIRURGIA POLMONARE
A LUME DI 10 ANNI DI ESPERIENZA

G. MIRTO

La rianimazione e l'assistenza postoperatoria immediata dell'operato di chirurgia toracopolmonare assumono aspetti di particolare importanza, in quanto non solo comportano la prevenzione e la correzione dei danni legati a quegli inevitabili deficit conseguenti alla sede stessa dell'intervento chirurgico, ma anche perchè richiedono contemporaneamente l'impiego delle tecniche e dei mezzi opportuni per ristabilire, nel più breve tempo possibile e nel migliore dei modi, le condizioni fun­zionali ottimali del polmone stesso sul quale si è operato, e per consentire al pa­ziente di superare, rapidamente e con successo, quella che è chiamata RR la malat­tia postoperatoria».
L'argomento che è oggetto della presente nota comprende, pertanto, lo studio dei sussidi terapeutici di ordine prevalentemente meccanico, che vanno dal corretto impiego dei tubi di drenaggio alla loro sorveglianza, dalla eventuale istituzione di un pneumoperitoneo alla opportunità di eseguire la broncoscopia con broncoaspi­razione, dall'impiego degli aerosol alla fisioterapia.
Ma esso investe anche e sopratutto problemi di grande interesse fisiopatologico e biochimico, che riguardano la ossigenoterapia e la terapia reidratante e sostitu­tiva, che, come vedremo, sono oggi impostate su concezioni scientifiche assoluta-mente nuove.
Il rianimatore, infatti, deve tenere conto di due grandi gruppi di deficit che possono manifestarsi nell'operato : i danni anatomo-funzionali legati allo stato pa­tologico del paziente, preesistenti all'intervento e le complesse alterazioni derivanti dall'atto operativo.
Per quanto riguarda i primi, non ci pare sia il caso di soffermarsi in questo studio, perchè l'intervento chirurgico non modifica, salvo che per rare eccezioni, la condotta della normale terapia preoperatoria.
Con particolare riguardo vanno trattate, invece, le deviazioni dalla norma conseguenti allo stress operativo, la cui riparazione per restituire alla normale omeo­stasi i vari apparati ed organi, rientra proprio nei compiti precipui della rianimazione.
Noi esporremo, capitolo per capitolo, la linea di condotta che oggi seguiamo, tenendo conto delle moderne acquisizioni scientifiche, ed in base alla esperienza non trascurabile da noi fatta in circa dieci anni di lavoro, dedicato esclusivamente all' anestesiologia.

I. - DRENAGGIO DEL CAVO TORACICO

A seguito di ogni intervento chirurgico, comportante l'apertura del cavo pleu­rico si ha il costituirsi di un collasso polmonare che, se da una parte è legato alla azione della pressione atmosferica sul polmone, dall'altra è dovuto alla retrazione concentrica verso filo delle fibre elastiche e del sistema muscolare. E che questa retrazione attiva sia superiore alla compressione determinata dalla pressione atmo­sferica ce lo dimostra chiaramente il fatto che un polmone enfisematoso anelastico non si affloscia a torace aperto, malgrado la pressione atmosferica.
La riespansione anatomica e la ripresa funzionale del polmone dopo l'inter­vento chirurgico, che ha richiesto l'apertura della pleura e la formazione di un pneumotorace totale, nonchè le manovre operatorie che hanno prodotto l'instau­rarsi di un certo grado di stupore del viscere, comportano la messa in opera di al­cuni accorgimenti di tecnica, quali la sistemazione di tubi di drenaggio.
A mezzo di essi, sia con l'aspirazione dell'aria rimasta nel cavo pleurico, sia col drenaggio di quella quantità di sangue, variabile da tipo a tipo di intervento chirurgico ma, comunque, pur sempre presente nel cavo, si vuole determinare la riespansione del parenchima polmonare residuo, la sua adesione con la parete to­racica e la elisione della cavità stessa.
Tranne qualche eccezione, riferentesi per la verità principalmente al trattamen­to del cavo toracico dopo pneumonectomia e di cui principali fautori sono Gibbon, Stokes, Chestermann, tutti gli AA. che si sono interessati dell'argomento usano sistemare nel cavo toracico uno o due tubi di drenaggio.
Da Lezius a Provenzale, da Chamberlain a Findlay, da Abruzzini a Di Paola, tutti sono d'accordo che i tubi con la loro funzione di drenaggio dell'aria e del sangue non solo riportano alla parete il polmone nel più: breve tempo, evitano altresì il fastidio di eventuali toracentesi evacuative e prevengono le eventuali ate­lectasie, ma scongiurano sicuramente il pericolo di un possibile inquinamento dal-l'esterno del cavo residuo.
Nel nostro Centro chirurgico si è soliti sistemare nel cavo toracico dei resecati polmonari, uno o due tubi di drenaggio, a seconda delle necessità. Dopo pneumo­nectomia sembrerebbe si potesse fare a meno dei tubi di drenaggio, in quanto i1 sangue, che inevitabilmente si raccoglie nel cavo pleurico, organizzandosi dovrebbe servire a riempire il cavo stesso. In realtà non è così, perchè, sia per le costanti perdite ematiche conseguenti alla pleurectomia che molto spesso si accompagna alla pneumonectomia, sia per la trasudazione ex vacuo, piuttosto frequentemente, si ha il rapido formarsi di versamenti che raggiungono troppo presto la sutura bron­chiale, determinando danni facilmente intuibili. Ricorrere alle toracentesi in luogo del drenaggio, non è consigliabile perchè si corre il rischio di provocare un inquinamento del cavo. Inoltre, il crescente aumento del versamento, determinando una pressione positiva nel cavo toracico in contrapposto con la pressione negativa del cavo pleurico controlaterale, potrebbe provocare lo spostamento del mediastino con relativi disturbi del circolo.
Sono questi i dati che inducono a drenare, con un tubo di piccolo diametro a perfetta tenuta d'aria, il cavo pleurico residuo.
Siamo soliti tenere in sito, chiuso, questo tubo per tre o quattro giorni, apren­dolo e facendo defluire il sangue solamente allorchè si dovrà abbassare il livello liquido o si vorranno riportare le pressioni endotoraciche all'incirca intorno allo zero.
Allorchè la exeresi polmonare invece è stata parziale, in questo Ospedale sa­natoriale vengono sistemati nel cavo pleurico due tubi di drenaggio. L'uno, supe­riore, di piccolo diametro, in corrispondenza quasi con il culmen del polmone; l'al­tro, di sezione maggiore, in basso. Dovrebbero servire questi drenaggi per facili-tare la riespansione polmonare il primo, per drenare le raccolte ematiche il secondo.
All'uopo il primo tubo di drenaggio viene posto in quella zona di torace dove i movimenti attivi del polmone e delle pareti sono meno intensi e dove l'aria, rac­cogliendosi, per legge di fisica, determinerebbe un ulteriore ostacolo alla riespan­sione del polmone.
Le modalità con cui regoliamo la azione drenante dei tubi sono indirizzate a seconda del caso. In linea di massima usiamo, appena chiuso il torace, disporre i tubi di, drenaggio « a sifone », con un pescaggio in acqua di uno o due centimetri al massimo. Contemporaneamente, verso la fine dell'intervento, le manovre di iper­pressione sul pallone respiratorio, dal canto loro, consentiranno la dilatazione mas­sima del polmone, contribuendo alla riespansione quasi immediata del parenchima residuo. In un secondo tempo, colleghiamo i tubi o con una pompa ad acqua o con un motorino di aspirazione a vuotometro regolabile e provochiamo in ogni caso una detensione nel cavo pleurico dell'ordine di — 5 — Io cm di H2O. Qualora invece residuino piccole effrazioni alveolari, molto facili a verificarsi specie in se­guito a decorticazione polmonare, spingiamo la depressione a valori più elevati.
La aspirazione forzata, se da un canto provoca un ulteriore gemizio di san­gue, dall'altro, vincendo le piccole perdite di aria, fa sì che il polmone si riporti a parete in un lasso di tempo piuttosto breve.
Alcuni Chirurghi vogliono la permanenza in sito dei tubi di drenaggio, pro-tratta per diversi giorni. Se da una parte i nostri Operatori sono fautori della messa in posa di due tubi di drenaggio, dall'altra, a noi pare che il primo tubo, il superiore, esaurisca molto presto il suo compito. Finito, infatti, lo stato di stu­pore del viscere, avviata la riespansione forzata nella zona meno aereata e meno mobile del polmone, la permanenza in loco del tubo, a nostro avviso, deve rite­nersi superflua e pertanto dopo 24 ore siamo soliti rimuoverlo, lasciando al tubo inferiore il compito di drenare secrezione liquida ed eventualmente aria.
Quest'ultimo, poi, viene anch'esso rimosso non oltre la 728 ora. Se primo intendimento nel decorso postoperatorio della chirurgia exeretica è quello di riportare il parenchima polmonare residuo a riempire il cavo toracico, bisogna sopratutto tenere conto di alcuni dati di ordine anatomico e funzionale. La trazione forzata del parenchima residuo attraverso i tubi di drenaggio favorisce sì la ri­espansione polmonare, ma sicuramente a danno delle fibre elastico-muscolari e della trama connettivale. Dette strutture forzate, possono arrivare alla rottura creandosi uno stato enfisematico. La riespansione spontanea e graduale, invece, determina il necessario adattamento dell'organo alla nuova situazione anatomica. Questa riespansione, è intuitivo, sarà tanto più facile e tanto più fisiologica, quanto minori saranno state le perdite di parenchima polmonare.

II. — PNEUMOPERITONEO DI SOSTEGNO

Allorchè si dovrà determinare la riespansione di un lobo polmonare che da solo può essere insufficiente a riempire un emitorace, specie dopo bilobectomia, nella nostra Scuola, usiamo far ricorso, alcune volte, nell'immediato decorso post-operatorio, alla istituzione di un pneumoperitoneo che, innalzando l'emidiafram­ma, contribuisce notevolmente alla riduzione del cavo toracico.
Al pneumoperitoneo ricorriamo sopratutto nelle exeresi lobari inferiori.
E' ovvio che tocca al Chirurgo stabilire, in casi del genere se sia necessario o meno procedere ad altri eventuali interventi operatori integrativi, come toracopla­stiche, piombaggio, frenicoexeresi.
La nostra esperienza tuttavia ci insegna che il pneumoperitoneo raggiunge so­vente lo scopo prefissoci di ridurre il cavo toracico, malgrado che gli oppositori di questa metodica sostengano che sia un errore sganciare il polmone dalla forza traente, su di esso esercitata dal diaframma.
Pur riconoscendo che qualche riflesso negativo per la dinamica respiratoria della base si possa avere con il pneumoperitoneo, bisogna riconoscere d'altra parte che il graduale riassorbimento del gas, man mano che si allontanano i rifornimenti, determinerà un progressivo ritorno in sede dell'emidiaframma con una corrispon­dente, modica, graduale e continua riespansione del lobo polmonare residuo.

III. — PREVENZIONE E TRATTAMENTO DELL'ATELECTASIA

L'atelectasia è tra le complicanze più precoci e più gravi che di frequente si presentano nell'immediato decorso postoperatorio del resecato polmonare. Ci limi­teremo a fare solo una rapida scorsa delle cause etiopatogenetiche di questa grave alterazione. Ci occupiamo di essa nella duplice veste di anestetista e di rianimatore. Spetta infatti all'anestetista adoperarsi profilatticamente nel prevenire il for­marsi della atelectasia, al rianimatore trattarla, una volta instauratasi. Indipen­dentemente da quelle che sono le cause di atelectasie dovute alla possibile torsione del peduncolo bronchiale in fase di riespansione polmonare o all'incarceramento del polmone per cospicuo versamento pleurico, o a fatti di distonia neuro-vegeta­tiva, in linea di massima, il meccanismo patogenetico che sta alla base della formazionedella atelectasia è legato ad una ostruzione bronchiale, quasi sempre de-terminata dalla presenza di un tappo di secreto o di sangue nel lume di un bronco di un certo calibro.
Con la loro presenza questi tappi inibiscono il passaggio alla corrente di aria, per cui gli alveoli non vengono regolarmente riforniti, mentre, dal canto suo, l'aria contenuta precedentemente in essi viene riassorbita dal sangue circolante. Se la ostruzione bronchiale è la causa determinante, altri fattori devono essere chiamati come concause del determinismo di essa. Le modificazioni qualitative del secreto bronchiale, prodotte dall'atropina usata nella medicazione preanestetica, la super­ficializzazione del respiro e la relativa diminuzione dei movimenti ciliari dei bron­chi per eccesso di curarizzazione, il prolungarsi del sonno narcotico con assenza del fenomeno attivo e produttivo della tosse, la deficiente aspirazione delle muco­sità durante l'operazione ed alla fine, prima della estubazione dell'operato, ecc. sono tutti fattori, questi, di cui l'anestetista deve tenere gran conto per la profi­lassi della sindrome atelectasica.
Una volta comparsa questa sindrome, però, è compito del rianimatore cer­care di sbloccarla al più presto, in quanto, se, come dice Biancalana a si tratta di un fenomeno sempre reversibile finché non subentrano fattori infettivi », sono da tenere presenti le indubbie ed evidenti conseguenze che su di un resecato polmo­nare può avere la esclusione dagli scambi respiratori di una zona più o meno va-sta di parenchima polmonare, nonchè le alterazioni anatomiche che possono crearsi per la formazione di zone di enfisema vicariante.
I presidii terapeutici che mettiamo in atto allorchè ci. si appresta ad interve­nire per sbloccare una sindrome atelectasica sono di due ordini : farmacologico il primo, tecnico il secondo.
Siamo soliti infatti fare aspirare mediante nebulizzatori aerosolici sostanze flui­dificanti delle secrezioni bronchiali onde rendere più facile il drenaggio delle secre­zioni stesse. E' nostro intendimento, oltre che rendere meno vischiose le secrezioni, stimolare, con la maggiore fluidità di esse, i movimenti espulsivi delle ciglia vi­bratili dei bronchi, e provocare il meccanismo della tosse. Questa, poi, non solo serve per espellere le secrezioni bronchiali, ma altresì contribuirà alla riespansione del polmone residuo. In questi ultimi tempi, usiamo addirittura aggiungere indi­scriminatamente questi fluidificanti ai comuni antibiotici che di norma vaporizziamo sotto la tenda ad ossigeno nella quale, come diremo più innanzi, sistemiamo di a routine » i nostri operati, almeno per qualche tempo dopo l'intervento chirur­gico. Se la tosse da sola non è capace di liberare i bronchi da questi tappi ostruenti, passiamo il compito alla fisioterapia, che mediante drenaggi di postura cerca di sortire l'effetto richiesto. Il drenaggio posturale onde essere efficace dovrà sopra-tutto tenere conto del bronco o del segmento interessato e di conseguenza variare con il variare di esso. Speciale, della nostra stessa Scuola, ricorda a tal proposito come sia utile, allorchè si pratica il drenaggio di posizione u una vibrazione tra­sversale, leggera con le mani sul torace nella fase di espirazione oppure praticare la succussione del dorso, Klapping degli AA. inglesi ». Inoltre cerchiamo di aspi-rare le mucosità intasanti i bronchi mediante un sondino di Metras che introduciamo nei bronchi principali per via naso-farigea. Con questa manovra, non solo si possono riuscire ad aspirare le mucosità ostruenti, ma, con l'indubbia stimola­zione che essa comporta, si determinano dei violenti colpi di tosse, che sono quasi sempre produttivi.
Allorchè anche con queste 'manovre non si riesce a rimuovere l'ostacolo e l'ate­lectasia permane, la broncoscopia con broncoaspirazione si impone e, quasi sem­pre per la verità, essa sblocca la situazione.

IV. – OSSIGENOTERAPIA

Altro importante presidio terapeutico che nell'immediato decorso postoperato­rio della chirurgia toraco-polmonare di norma chiama in causa il rianimatore è l'ossigenoterapia.
E' pressocchè la norma in questo tipo di chirurgia il crearsi di uno stato di ipoventilazione con relativa ritenzione di CO2 (Crafoord, Beecher e Murphy) che. è evidente, comporta la richiesta di un maggiore apporto di 02. Le eventuali corn­plicanze di polmoniti o broncopolmoniti postoperatorie, le zone atelectasiche ecc., riducendo ancor più la capacità degli scambi ossidativi, per la minore superficie di parenchima respirante, vengono ad aggravare le già precarie condizioni di ossi­genazione, date dalla normale superficialità del respiro dei resecati polmonari, de-terminando in ultima analisi uno stato di ipoossia e di ipercapnia.
Questi dati, è noto, si ripercuotono principalmente a carico dell'apparato car­dio-vascolare. La ritenzione di. CO2, da un canto, spostando il pH ematico verso l'acidosi può influire negativamente sul ritmo e sulla conduzione cardiaca; la ipo­ossiemia, dall'altro, producendo una vasocostrizione arteriolare determina un au-mento della resistenza a livello del circolo polmonare, che, a sua volta, si riper­cuote con un danno sulla circolazione sistemica.
E' ovvio come, in questi casi, una corretta tecnica ossigenoterapica sia alla base stessa della vita. Infatti la somministrazione inadeguata od eccessiva di 02 può apportare notevoli danni; giacchè, specie in questa seconda evenienza, pos­sono venire mascherati i dati clinici e si influenza negativamente la ventilazione polmonare.
Le tecniche ossigenoterapiche che volta a volta sono state messe in atto sono variate e variano continuamente man mano che apparecchiature sempre più com­plesse si sostituiscono, superandosi a vicenda, man mano che sempre di uso più corrente va diventando la gasanalisi.
Nei lunghi anni di pratica ossigenoterapica da noi fatta, ci siamo serviti dei sondini nasali, degli occhiali di Tudor, delle maschere B.L.B., somministrando quantità variabili di 02 da litri 2 a litri 6 al minuto. Noi stessi assieme a Giallom­bardo abbiamo anche proposto l'uso di una semplice apparecchiatura per misu­rare il flusso del gas erogato. La somministrazione dell'ossigeno per molto tempo è stata regolata in modo piuttosto empirico. Oggi preferiamo sistemare gli operati, nel primo decorso postoperatorio, sotto la tenda ad ossigeno. Ci pare infatti che inessa si possano creare le condizioni ottimali per la ossigenoterapia e per la vita dell'operato del torace. Mediante un ossimetro di Bekman ci accertiamo continua-mente, regolandola secondo i criteri suggeriti dalla fisiologia e dalla clinica, della opportuna concentrazione in 02 esistente all'interno di essa e siamo soliti comple­tare l'assistenza, qualora il caso lo richieda, ricorrendo al dosaggio dei gas 02 e CO2 nel sangue, mediante un comune apparecchio di Van Slyke e Neill.
Scorrendo la letteratura di questi ultimi tempi si nota come per una corretta ossigenoterapia e perfetta ventilazione polmonare, da parte di numerosi AA. stra­nieri ed italiani (Bjork; Engstrom; L'Allemand; Wassner; Logroscino; Parentela, ecc.) si vada diffondendo l'uso di lasciare taluni operati del polmone, collegati ad un apparecchio per la respirazione automatica controllata, a regolazione di pres­sione inspiratoria e di depressione espiratoria.
Noi per la verità, fino ad oggi, non possiamo pronunciarci in proposito, in quanto, pur essendo in possesso di questi apparecchi, che correntemente usiamo durante il periodo peroperatorio, mai abbiamo dovuto lamentare, nella nostra pra­tica quotidiana, incidenti od accidenti tali che ci avessero costretti a sostituire i centri bulbari dei nostri operati con delle macchine, sia pure tecnicamente perfette. E' ovvio però che l'impiego di tale metodica ci persuade, specie quando si renda necessario intervenire per forzare meccanicamente la espirazione e favorire in tal modo la eliminazione dei danni determinati dalla superficialità di essa e che, ab­biamo detto, si tramutano in una ritenzione di CO2, con relativa ipercapnia e con-seguente acidosi.

V. - TRASFUSIONI DI SANGUE

E' ovvio che la chirurgia toracica, qualunque sia la natura dell'intervento praticato, comporta sempre una rilevante perdita di sangue.
Le cifre medie delle perdite ematiche intraoperatorie si aggirano sui 1500 cc. per una lobectomia, per passare ai 2000 cc. per una pneumonectomia, e ad oltre 3 litri per una pleuropneumonectomia (Aletti, Fantini). E' evidente, quindi, quale grande impegno debba essere dato alla reintegrazione trasfusionale senza peraltro ricadere nell'eccesso opposto.
Le perdite ematiche, purtroppo, non si limitano al solo tempo operatorio, chè, anzi esse continuano nel primo decorso postoperatorio con la eliminazione, attra­verso i tubi di drenaggio, dei versamenti ematici e sieroematici raccolti nel cavo toracico residuo.
Seguendo il vecchio aforisma che « il sangue si sostituisce con il sangue » sia­mo soliti rimpiazzare, volume a volume, le perdite ematiche, sia intraoperatorie che postoperatorie. Teniamo, poi, moltissimo a chè il sangue trasfuso sia assoluta-mente dello stesso gruppo di quello dell'operato. Altrimenti, date le grandi quan­tità trasfuse, potrebbe verificarsi che il siero del sangue apportato agglutini i glo­buli rossi del ricevente.
Onde esser quanto più precisi possibile nella reintegrazione della massa ema­tica perduta — in quanto, l'abbiamo detto, cerchiamo di rimpiazzare il sangue, volume a volume — siamo soliti procedere alla doppia pesata delle pezze durante l'intervento, e alla misurazione del sangue raccolto nei vasi di aspirazione.
Trasfondiamo il sangue preventivamente raccolto in vasi da trasfusioni, preparati all'uopo con soluzione A.C.D. e mai abbiamo dovuto, per la verità, lamen­tare incidenti di sorta. Ove e quando è possibile, sarebbe opportuno però ricorrere, a lume delle più recenti acquisizioni, alla trasfusione diretta.
Al citrato trisodico delle soluzioni usate per la conservazione del sangue sono state imputate, infatti, in questi ultimi tempi (Laborit) le responsabilità di casi di insufficienza cardiaca acuta. Ed è abbastanza seducente la teoria secondo la quale un apporto massivo, incondizionato, di Na possa determinare una« defaillance » del miocardio. E' da tenere conto che, per un operato del polmone, la fibra mu-scolare cardiaca è sempre affaticata da uno stato più o meno tossico, legato vuoi alle sostanze anestetiche impiegate intraoperatoriamente, vuoi alla ipoossia, vuoi ancora al « surmenage » cui questo organo viene sottoposto per far fronte alla nuova situazione fisiologica. In ogni caso le trasfusioni di sangue devono essere tempestive e bilanciate alle perdite, in quanto è noto come l'organismo reagisca per proprio conto alla ipovolemia, richiamando liquidi dai tessuti; un apporto quindi massivo di sangue, non tempestivo, non sortisce altro effetto che quello di caricare inutilmente il circolo, apportando un ulteriore lavoro al cuore, che come abbiamo detto, è in questo momento particolarmente provato.
Dire dei vari sostituti del sangue in toto, dal plasma alle soluzioni macromo­lecolari di destrosio, dal polivinilpirrolidone alla gelatina, tanto usati, per la ve­rità, specie i primi, ci pare superfluo. Se essi, infatti, consentono l'apporto per l'organismo di un mezzo colloidale o nutritivo proteico, mancano sicuramente dell'agente primo di cui si abbisogna, in chirurgia toraco-polmonare : il veicolo per la conduzione dell'ossigeno.

VI. — PERFUSIONI DI GLUCOSIO

Nella rianimazione dell'operato, toracopolmonare il ricambio dei glucidi, dei protidi, con il relativo apporto dall'esterno e il mantenimento dell'equilibrio idrico-salino sono argomenti che hanno fatto per noi oggetto di studio e di esperienza quotidiana.
E' il glucosio la fonte principale cui l'organismo attinge la sua energia.
Non ci pare questa la sede per addentrarci nella descrizione del metabolismo del glucosio, che d'altra parte è a tutti noto. Vogliamo solo ricordare come que­sto esosio venga prevalentemente fornito dai carboidrati. In difetto di essi, però, glucosio può venire sintetizzato dal glicogeno epatico o derivare dalle proteine. A sua volta, nel fegato, il glucosio viene trasformato in glicogeno e, sotto questa forma, viene immagazzinato nei muscoli e nel fegato stesso : ciò, per lo meno, fino ad una data quantità, giacchè il resto, viene trasformato in grasso o passa nelle urine.
Allorchè le introduzioni di sostanze energetiche dall'esterno sono deficitarie, il glicogeno epatico viene rapidamente esaurito ed è in questo momento che si ini-' zia l'autofagia dei tessuti, poichè zucchero viene formato a spese delle proteine.
Essendo il glucosio il principale combustibile dell'organismo è ovvio che quan­to più grande sarà il suo consumo, tanto maggiore sarà il fabbisogno, in rapporto al metabolismo.
Nel decorso postoperatorio se, da una parte, si ha un maggiore consumo di calorie, dall'altra si ha una mancanza assoluta o un deficiente apporto di sostanze caloriche dall'esterno; nasce logica conseguenza, quindi, la imprescindibile neces­sità di apportare zucchero farmacologicamente.
Il glicogeno, oltre che azione nutritiva, ha un ruolo non indifferente nel le-gare il K intracellulare. Questo, con i suoi spostamenti dai liquidi interstiziali alla cellula, determina la ripolarizzazione della membrana cellulare. E' ovvio, pertan­to, quale necessità vi sia di glucosio per riequilibrare il tono cellulare e per con-sentire quindi la vita stessa della cellula. Si sa infatti che una marcata depolariz­zazione per eccessivo passaggio di K intracellulare nel liquido interstiziale porta inevitabilmente all'esaurimento della cellula.
Abbiamo detto che il miocardio in chirurgia toracica è particolarmente affa­ticato; è ovvio quindi che la cellula cardiaca abbia bisogno non solo di un maggiore apporto di nutrimento, ma anche che si creino le condizioni più favorevoli per la ripolarizzazione, intendendo per ripolarizzazione la possibilità della cellula di ca­ricarsi in tono.
Le esperienze di Blaise e Huguenard hanno dimostrato come soluzioni di glu­cosio o di fruttosio, ipertoniche, provocano una costante ipereccitabilità neuromu­scolare, laddove una ipoeccitabilità viene determinata con l'introduzione di solu­zioni al 5 %. Ed ancora, Stoll, dal canto suo, ha dimostrato che il potassio cellu­lare si sposta addirittura nel settore extracellulare, allorquando si adoperino solu­zioni di glucosio al 5 %. Le infusioni isotoniche di glucosio sarebbero quindi, più dannose che utili, in quanto apporterebbero una quantità di acqua eccessiva, in rapporto alle dosi minime di zucchero in esse contenute.
Harrop e Benedict hanno dimostrato ipokaliemia dopo somministrazioni di insulina e iperkaliemia conseguente a somministrazioni di adrenalina.
Lo stress operatorio, come si sa, determina in un primo tempo una iperfun­zione surrenalica, seguita in un secondo tempo dall'esaurimento di essa. Nel pe­riodo postoperatorio immediato l'organismo risente del primo momento neuroen­docrino dello stress e si hanno quindi per l'organismo le conseguenze della iper­funzione surrenalica. Nel caso specifico, si viene a determinare la depolarizzazione della membrana cellulare con fuoriuscita di K dalla cellula verso il liquido inter­stiziale. L'ione Na rimpiazza il K all'interno della cellula; ne consegue, pertanto, iperkalemia con iponatremia.
Da quanto fin qui abbiamo esposto appare chiaro quale grande importanza assuma l'apporto di glucosio per l'organismo, non solo per la sua qualità di ma­teriale altamente energetico e facilmente combustibile, ma altresì per il ruolo che esso giuoca, lo abbiamo detto, per la ripolarizzazione della cellula. Per maggiori particolari sull'argomento ci richiamiamo ad un'altra nostra nota, in collabora­zione con Speciale, proprio sulla reidratazione dell'operato.
Nella rianimazione dei nostri operati pratichiamo delle infusioni venose di so­luzioni glucosate modicamente ipertoniche (10-15 %) raggiungendo le dosi giorna­liere di 150-200 gr. di glucosio. Aggiungiamo a queste dosi per noi ottimali, da 15 a 20 U.I. pro die di insulina, con il duplice intendimento di sfruttare in pieno l'azione del glucosio, mediante una pronta combustione di esso, e di favorire inol­tre, giusto le esperienze di Harrop e Benedict, la ipokaliemia, conseguente alla somministrazione di insulina.
Qualora l'apporto di glucosio poi si fosse dimostrato insufficiente, la sommi­nistrazione di questo ormone consente, ancora, di sfruttare la utilizzazione della glicogenosintesi a spese della proteolisi, creando quelle condizioni per cui energie vengono apportate agli organi più nobili, ma più affaticati, a spese di quei tessuti che in questi momenti ne hanno meno bisogno.
A proposito dell'impiego del glucosio e dei suoi derivati ci piace ricordare, in-fine, le esperienze di Sanguigno e Carini sull'azione dell'estere di Cori sulle alte-razioni miocardiche nella tubercolosi polmonare. Sanguigno e Carini hanno dimo­strato che l'impiego di detto estere può riuscire particolarmente utile nelle cardio­patie dismetaboliche della tubercolosi, specie quando si richieda (( per esigenze di ordine chirurgico, la sopportazione di improvvisi e spesso brutali sovraccarichi funzionali cardio-respiratori ».

VII. — REINTEGRAZIONE PROTEICA

La terapia della deplezione proteica ed il relativo apporto di amino-acidi al-l'operato è un altro argomento da noi tenuto in giusta evidenza in corso di riani­mazione.
La deplezione proteica, propria degli operati, è legata etiopatogeneticamente a diversi fattori. L'emorragia, l'accentuato catabolismo, il deficit alimentare e non ultimo lo stato di modica insufficienza epatica, propria del periodo postoperatorio, sono tutti fattori che influenzano l'instaurarsi, più o meno rapido, di uno stato di disprotidemia in senso negativo. Ciò risulta ben chiaro ove si pensi che mentre i grassi possono venire sintetizzati dai carboidrati e questi dalle proteine, l'organismo non può fabbricare proteine da altre sostanze che non siano i componenti alimen­tari (amino-acidi, peptidi) delle proteine stesse (Pettinari, Dagradi). Secondo poi la moderna concezione dinamica del metabolismo proteico sono da ammettersi scambi continui fra proteine dei tessuti e proteine del plasma.
Il primo periodo postoperatorio chiamato anche, secondo la classificazione di Moore, stadio « adrenocorticoide », in quanto, come abbiamo detto più avanti, ri­produce le modificazioni dell'iniezione di adrenalina e di corticosteroidi, dura all'incirca da due a quattro giorni ed è caratterizzato dallo accentuato consumo en­dogeno di proteine.
In questo periodo cominciano i processi riparativi a livello della ferita, che diventa sede di accumulo di quelle sostanze che saranno poi utilizzate per la formazione del tessuto cicatriziale: protidi, polisaccaridi, acido-ascorbico (Vourc'h).
La escrezione di azoto, sotto forma di urea, è notevolmente aumentata, al punto che in cinque giorni si possono perdere circa cinquanta grammi di azoto, pari a 312 di protidi, quasi, cioè, il 4 % delle proteine totali del corpo. La perdita di azoto di questo periodo pare sia legata ad un prevalere del bilancio catabolico su quello anabolico, tanto è vero che una dieta iperproteica ed ipercalorica riesce a mantenere positivo o quanto meno in equilibrio il bilancio di azoto.
Tenuto conto dei numerosi fattori — li abbiamo accennati — che possono condurre allo squilibrio nel senso di una deplezione proteica e considerato, sopra-tutto, che l'intervento chirurgico, da solo, è capace di provocare, attraverso mol­teplici meccanismi, la perdita di materiale azotato, non sorprende la grande im­portanza che noi diamo alla reintegrazione proteica postoperatoria.
Per la verità, negli operati del torace, in un certo qual senso, il compito ci viene facilitato dal fatto che siamo soliti ripristinare l'alimentazione, con sommi­nistrazione di proteine naturali, per via fisiologica, quanto più presto è possibile. Subito dopo il risveglio dell'operato e appena ritornata la coscienza, infatti, co­minciamo a somministrargli liquidi per os e, non oltre la 24aora riprendiamo, gra­datamente s'intende, la completa alimentazione. Inoltre, tenuto conto dell'aumen­tato fabbisogno di sostanze proteiche, e del loro richiamo al livello dei tessuti trau­matizzati, per la ricostruzione e la neoformazione di sostanza vivente, siamo soliti arricchire l'apporto proteico alimentare mediante infusioni venose di quei prepa­rati, facilmente reperibili in commercio, nei quali vi siano, in giusta proporzione fra loro, gli aminoacidi essenziali. Condividiamo infatti il modo di vedere di Ter­roine che dice « l'uomo, come tutti gli altri animali non ha bisogno di proteine, nè animali, nè vegetali. Ha bisogno di certi amino-acidi liberi, che la demolizione di-gestiva delle proteine alimentari gli fornisce ».
Come vedremo in seguito, a queste infusioni di amino-acidi usiamo aggiun­gere quantità fisiologicamente sufficienti di vitamine del complesso B e C, in quan­to è stato sicuramente dimostrato il fatto che una dieta iperproteica richiede, per la sua conveniente utilizzazione, un apporto di vitamine molto superiore al normale; esse sono infatti coinvolte nel metabolismo proteico.

VIII. — APPORTO IDRICO-SALINO

L'apporto idrico per gli operati del torace non è oggetto per noi di speciali preoccupazioni. Da un canto, come più sopra abbiamo detto, cominciamo subito a fare bere gli operati, dall'altro, le trasfusioni, sia di sangue che di plasma, le infusioni venose di soluzioni glucosate e di amino-acidi ci consentono di sommini­strare all'operato quella quantità di acqua, che in linea di massima è necessaria a compensare le perdite che si sono verificate intraoperatoriamente e che nel decorso postoperatorio continuano a determinarsi, specie con le raccolte sieroematiche provenienti dai tubi di drenaggio.
Il fenomeno della sete, la oliguria e la secchezza della lingua sono i sintomi principali e più evidenti che caratterizzano, con la loro presenza, il deficit di acqua ed in linea di massima sono essi che ci guidano, seppure in maniera empirica, a una appropriata reintegrazione.
Per quanto concerne l'apporto di sale nell'immediato periodo postoperatorio è da tenere presente, come è noto, che a seguito dello stress chirurgico si ha in li­nea di massima una riduzione della eliminazione elettrolitica che si accompagna a diuresi normale. Detta ritenzione di sali è legata, vuoi alla riduzione del volume di sangue che passa per il rene durante l'intervento (Wan Slyke e coll., Coller) vuoi alla fase di ipertensione corticosurrenale propria dello stress chirurgico. Tenendo presente questi concetti, abbiamo quasi eliminato nel periodo postoperatorio im­mediato la somministrazione di soluzioni clorurate, a meno che non debbano esi­stere delle speciali indicazioni dettate da abnormi perdite di questo elettrolita ed in ogni caso compensiamo queste perdite, come è d'uso del resto dalla più parte dei rianimatori, più per difetto che per eccesso.
Senza peraltro arrivare alle conclusioni di Laborit e Huguenard i quali ba­sandosi su dati sperimentali e clinici dicono che sono legati all'eccesso di Na in rianimazione, le ipertermie, l'oliguria, la broncorrea, il disordinato catabolismo azotato ed il sovraccarico ventricolare destro, noi siamo convinti che un eccesso di Na in rianimazione non sia affatto utile.
La sua azione si manifesta infatti a livello della membrana cellulare, favo-rendo gli scambi ed i rapporti tra ambiente intra- ed extracellulare del K nel senso di favorire la kalemia a spese della kalicitia. Ciò, lo abbiamo visto, rap-presenta un fattore negativo per la ripolarizzazione della cellula. In ultima ana­lisi, in rianimazione postoperatoria, il Na non fa altro che accrescere la depola­rizzazione cellulare nel periodo in cui le cellule avrebbero maggiormente bisogno di ripolarizzazione.

IX. — VITAMINE

Come abbiamo già accennato, le vitamine che maggiore interesse rivestono nel periodo postoperatorio, per non parlare della vitamina K, PP, ecc., sono la vitamina B e la vitamina C. Di quest'ultima, come è stato dimostrato da Gosset e coll., si può avere un calo, indipendentemente dalla ascorbinemia iniziale e in rapporto al trauma operatorio, variabile dal 5 fino all' 88 %. Ed è evidente di quale danno sia la ipovitaminosi C, qualora si pensi al ruolo che essa giuoca nei processi di cicatrizzazione.
Le vitamine del complesso B, dal canto loro, entrano a far parte di un vasto gruppo di sistemi enzimatici impegnati nel metabolismo organico. Appare chiaro quindi come la reintegrazione del patrimonio vitaminico non possa essere trascu­rata nella terapia rianimatoria.
Per completare quanto da noi usualmente fatto per la rianimazione dell'ope­rato toraco-polmonare resterebbe da dire della terapia farmacologica medicamen­tosa propriamente detta. Ma ciò non ci riesce agevole, nè tanto meno possiamo tracciare un programma ben definito, in quanto, la rianimazione così come è da noi condotta, non ci obbliga quasi mai a dovere ricorrere all'uso di medicamenti per sostenere il cuore o il circolo, provati dallo stress chirurgico. Nè, d'altra parte, è qui il caso di trattare della terapia antibiotica, che sempre viene praticata, ma che esula dal compito della rianimazione. La reintegrazione del sangue perduto e l'apporto di ossigeno, elementi base della rianimazione in chirurgia toracica, ba­sterebbero teoricamente, da soli, come dicono gli anglosassoni, per la rianima­zione dell'operato del polmone. Se a ciò si aggiunge l'infusione venosa di sostanze energetiche e facilmente ossidabili, come il glucosio, che noi pratichiamo in dosi piuttosto generose, ed infine se si considera che preveniamo l'autofagia dei tessuti ed il lavoro non indifferente dell'organismo per la scissione delle proteine e la tra­sformazione di esse in sostanze facilmente ossidabili, mediante l'apporto di note-voli quantità di aminoacidi e di vitamine, ci pare chiaro come l'organismo debba trovarsi nelle migliori condizioni per superare la « malattia postoperatoria ».
Ci piace ricordare in proposito quanto, di recente, ha puntualizzato Sangui­gno sul trattamento pre-operatorio del tubercolotico con particolare riguardo all'apparato cardiovascolare, trattamento che, in genere, viene seguito anche nella fase di rianimazione.
Casi particolari, è vero, possono presentarsi, ma proprio per la loro peculia­rità, non possono fare testo nè essere soggetti a schemi terapeutici standardizzati o quanto meno prestabiliti.
Sono la fisiologia, la clinica, il laboratorio e l'applicazione pratica della scien­za farmacologica, che volta a volta ci indirizzano nel trattare quest'organo o quel sistema, che più necessitano di una particolare terapia.

XI. — CONCLUSIONI

Da quanto abbiamo finora esposto possiamo trarre alcune conclusioni che sca­turiscono non solo dalle moderne conoscenze nel campo della rianimazione, ma anche, come abbiamo detto, da lunghi anni di esperienza fatta proprio nel trat­tamento degli operati di chirurgia polmonare.

Esse sono le seguenti :

1) E' buona regola, a meno che particolari situazioni non lo richiedano, rimuovere al più presto (in genere alla ventiquattresima ora) il tubo di drenaggio dell'aria, che viene sistemato superiormente nel cavo toracico dopo exeresi par­ziale. Infatti, superato lo stato stuporoso del viscere e avviata meccanicamente la riespansione del polmone, la permanenza in sito del tubo non solo è inutile, ma addirittura controproducente perchè esso agisce da corpo estraneo;

  • Specie dopo bilobectomia può essere utile, nell'immediato decorso post operatorio, la istituzione di un pneumoperitoneo che, sollevando l'emidiaframma, riduce l'ampiezza del cavo toracico;
  • L'atelectasia va prevenuta intraoperatoriamente e, quando si instaura, va trattata precocemente e drasticamente, con i medicamenti opportuni, con li fisioterapia e, se occorra, con la broncoaspirazione;
  • L'ossigenoterapia non va praticata empiricamente ma secondo i risultati forniti dal dosaggio dell' O2 e del CO2 nel sangue circolante;
  • Il sangue perduto durante e dopo l'intervento chirurgico va sostituito « volume a volume » e sempre ed in ogni caso con sangue isogruppo;
  • Le infusioni venose di glucosio vanno praticate con soluzioni ipertoniche (10-15 %) giacchè la esperienza altrui e nostra ci ha dimostrato come l'apporto di glucosio in concentrazione più bassa sia più dannoso che utile ai fini, sopra-tutto, del ristabilimento del potenziale di carica delle cellule dell'organismo e della fibrocellula cardiaca in particolare;
  • L'uso combinato dell'insulina in dosi di I0-20U.I. « pro die » ci pare utile anche per la glicogenosintesi proteica che essa determina;
  • La deplezione proteica degli operati va combattuta con l'apporto ali­mentare precoce e con infusioni venose di soluzioni contenenti aminoacidi;
  • L'apporto di Na nell'immediato decorso postoperatorio è stato quasi da noi bandito perchè, di norma lo stress chirurgico produce un accumulo note-vole di questo ione nei liquidi interstiziali;

10) E' sempre opportuno, infine, reintegrare il patrimonio vitaminico con somministrazione di vitamina C, e del complesso B.

RIASSUNTO

L'A. esamina i vari deficit che possono influenzare negativamente il decorso postoperatorio immediato dell'operato del polmone. Espone le varie modalità di tecnica ed i vari sussidi terapeutici che volta a volta possono essere chiamati in causa per ristabilire la normale omeostasi dei vari apparati ed organi ed apporta ad ognuna di queste tecniche e di questi presidi terapeutici il contributo della sua esperienza acquisita in dieci anni di continua pratica rianimatoria di operati di chirurgia toraco-polmonare.

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