26 luglio 2010 La fine della vita dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva. GIVITI
(Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva),
ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI GIVITI
ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI
COMUNICATO STAMPA
La fine della vita dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva. (Ricerca)
Pesaro, 19/10/2006
Circa 8 su 10 ricoverati nelle Terapie Intensive Italiane sopravvivono e vengono trasferiti ad altri reparti degli Ospedali ma 2 su 10 purtroppo muoiono. La morte di questi pazienti può essere un evento inatteso, anche se le loro condizioni erano dall’inizio molto compromesse; in tali casi fino alla fine non si possono escludere probabilità di recupero ed ogni trattamento intensivo risulta appropriato. Spesso invece la morte diventa espressione dell’impossibilità di “guarire” ed i trattamenti intensivi intrapresi non fanno altro che prolungare un processo di morte divenuto
ormai inarrestabile.
Coma, farmaci sedativi, alterazioni metaboliche gravi, ecc. precludono abitualmente al paziente in Terapia Intensiva la possibilità di decidere in piena autonomia se avviare e fino a quando continuare i trattamenti intensivi.
In questo contesto è inevitabile e quotidiano discutere, all’interno dell’equipe e con i familiari, di “fare tutto il possibile”, di “accanimento terapeutico”, di “limitazione di trattamenti intensivi”.
Perché questa ricerca
Tutti oggi concordano su alcuni punti:
- per tutti i pazienti deve essere fatto il possibile per ottenere la guarigione e la migliore qualità di vita possibile
- l’”accanimento terapeutico”, o meglio il ricorso a trattamenti intensivi inappropriati per eccesso è un rischio reale soprattutto, ma non solo, in un reparto di Terapia Intensiva e va considerato improprio dal punto di vista sia clinico che etico.
- I termini dell’applicazione di trattamenti inappropriati per eccesso (accanimento
terapeutico) non sono sempre facili da determinare e questo porta spesso ad
atteggiamenti molto diversi.
Questa ricerca si propone di indagare con metodologia quanto più rigorosa e scientifica cosa succede e come questo succede nei reparti di Terapia Intensiva in Italia.
Al di là della conoscenza scientifica sui processi di cura nella particolare condizione del paziente morente, questi dati sono l’unica valida base per una discussione sulla grande problematica del “morire in Terapia Intensiva” e per interventi di miglioramento in questo ambito, cui anche la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI www.siaarti.it)) ha dato importanti contributi attraverso la pubblicazione di Linee-Guida.
Il GiViTI
Il GiViTI (Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva), con sede presso l’Istituto Mario Negri di Bergamo, a cui aderiscono oggi più della metà delle Terapie Intensive italiane (www.giviti.marionegri.it), ha come obiettivo principale quello di migliorare la qualità dell’assistenza fornita da questi reparti.
Attraverso il confronto continuo delle pratiche assistenziali, grazie alla raccolta di dati riguardanti l’intero processo di cura, che nel 2005 ha raccolto più 55000 pazienti, vengono svolti diversi progetti di ricerca, relativi all’organizzazione e ai costi, ad alcune problematiche cliniche rilevanti tra cui le infezioni, la nutrizione artificiale ed il controllo del dolore. Questo impegno negli anni ha prodotto risultati concreti e consistenti: i dati dimostrano che negli ultimi 10 anni la mortalità
nelle terapie intensive che aderiscono al gruppo si è ridotta del 10% in assoluto.
Alla parte quantitativa della ricerca denominata “Decisioni di fine vita”, hanno partecipato 84 Terapie Intensive in tutto il territorio nazionale che per un anno hanno raccolto dati relativi a:
• Partecipazione dei pazienti alle decisioni e loro consenso alle cure
• Decisioni terapeutiche nei pazienti che poi decedono nelle Terapie Intensive
• Coinvolgimento dei familiar
• Problematiche relative alla donazione di organi
In concomitanza, si è svolta una approfondita ricerca di taglio qualitativo che ha coinvolto anche bioeticisti, sociologi, pedagogisti e psicologi su un gruppo limitato di Terapie Intensive, finalizzato alla rilevazione della percezione dei vissuti emotivi e delle elaborazioni culturali degli operatori.
I risultati della ricerca quantitativa
Le prime e non definitive elaborazioni dei dati raccolti riguardano 3648 pazienti deceduti in 84 unità di Terapia Intensiva che nel 2005 hanno ammesso 21428 pazienti
Partecipazione dei pazienti alle decisioni e loro consenso alle cure
In oltre 80% dei pazienti studiati, questi sono stati considerati non in grado di esprimere un consenso valido al piano di cure al momento dell’ammissione in Terapia Intensiva. Le ragioni di questo sono: alterazioni della coscienza, condizioni di estremo stress, anestesia, ecc. Ne risulta che il paziente raramente può decidere per se stesso e solo in pochi casi (8%) è disponibile una testimonianza formale ed anticipata delle proprie volontà (testamento biologico).
All’ammissione di un paziente in Terapia Intensiva viene abitualmente formulato in qualche modo un “piano di cure” che, tra tante altre cose comprende anche una prima valutazione della prognosi del paziente e di conseguenza una valutazione circa “fino a dove spingere la terapia intensiva”. Nell’indagine GiViTI risulta che per oltre il 90%, all’ammissione era stata decisa e attuata una terapia piena con tutti i trattamenti intensivi disponibili. Questo massimale impegno iniziale è applicato in tutti i pazienti che presentano una condizione estremamente critica ma potenzialmente reversibile. Una limitazione di uno o più trattamenti intensivi decisa
all’ammissione è stata attuata solo nell’8% dei pazienti ed ha riguardato sia pazienti in cui ci si attendono migliori risultati da trattamenti meno invasivi sia pazienti morenti in cui è appropriato avviare un piano di cure palliative non praticabile in altri reparti.
Le limitazioni dei trattamenti intensivi durante il percorso clinico
Un trattamento intensivo senza limitazioni è stato assicurato a oltre 60% dei pazienti fino al momento del decesso. La maggior parte di essi è morta precocemente per la gravità delle condizioni e prima che le cure potessero mostrarsi efficaci. Nel restante gruppo di pazienti deceduti vi è stata una limitazione dei trattamenti intensivi. Queste decisioni avvengono più tardi nel decorso clinico, quando la prognosi infausta diventa evidente e le motivazioni più frequentemente riportate sono “evitare cure inappropriate per eccesso”, cioè trattamenti senza
alcuna prospettiva di dare giovamento.
La frequenza con cui vengono prese decisioni di limitazione dei trattamenti intensivi è molto variabile nelle Terapie Intensive italiane ma anche dove ciò non avviene praticamente mai, queste decisioni non modificano la mortalità. Laddove non vengono praticate limitazioni dei trattamenti intensivi non muoiono meno pazienti ma muoiono più tardivamente, probabilmente “peggio” e con un inutile prolungamento dell’agonia.
Un aspetto particolarmente sentito delle decisioni di fine vita in Terapia Intensiva nel quale la limitazione non dovrebbe trovare asilo, riguarda la sedazione/analgesia al momento del decesso.
Lo studio mostra una percentuale di utilizzo di questa pratica terapeutica che, benché aumentata rispetto a precedenti indagini GiViTI, è tuttora passibile di ulteriore miglioramento; in questo senso è noto in letteratura scientifica che la sensibilità all’aspetto della sedazione/analgesia nelle
cure palliative può e deve migliorare, non solo in Terapia Intensiva.
Chi prende le decisioni ?
Solo nel 7% dei casi erano disponibili precedenti disposizioni espresse dal paziente o testimoniate dai famigliari, anche se queste non erano espresse in modo formale e in assenza di disposizioni di legge specifiche. Già inizialmente, al momento del ricovero, la “capacità” del paziente di comprendere e decidere era fortemente ridotta e solo l’8% ha potuto dare il consenso al piano di cure. Successivamente questa possibilità diventa praticamente nulla. Le decisioni devono quindi essere prese da altri, i medici intensivisti in primo luogo. La collegialità di queste decisioni e il coinvolgimento degli infermieri, se pure auspicabile, è incostante. I familiari sono anch’essi variabilmente coinvolti, non nella decisione ma nella valutazione delle prospettive. Risulta dall’indagine che vi è una minore tendenza alla limitazione dei trattamenti intensivi sia quando la famiglia è fortemente coinvolta sia quando la famiglia è praticamente
assente.
La donazione d’organi
L’unica parte riguardante la “fine della vita” in Ospedale che oggi è ben definita è la morte cerebrale. La legge in materia è precisa e chiarissima e richiede la convocazione dell’apposita commissione quando vi sono i criteri clinici. Nel campione dello Studio GiViTI 423 pazienti (11% delle morti osservate nel periodo) sono stati considerati come possibili donatori d’organo; in 310 la donazione d’organo si è realizzata. Nelle 113 mancate donazioni la causa più frequente era
l’opposizione da parte della famiglia.
Conclusioni
Nelle circa 450 Terapie Intensive italiane ogni giorno si deve decidere se e quanto insistere con i trattamenti evitando di accanirsi. Non si tratta di eutanasia, che è la soppressione intenzionale di una persona che ne fa richiesta.
Forse proprio per la confusione tra le decisioni di fine vita e il tema scottante dell’eutanasia finora vi sono state nel nostro paese gravi difficoltà a discutere apertamente di questi argomenti.
È ora che questi tabù cadano e che da tutte le parti si cerchi di affrontare il problema con grande serietà e senso di responsabilità.
È ben comprensibile quindi che, attualmente, le decisioni di “fine vita” siano molto
disomogeneamente praticate e motivate: ognuno ragiona e agisce con poco confronto e basandosi soprattutto sulle proprie convinzioni.
Guido Bertolini
Centro di Coordinamento GiViTI
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri
Ranica (Bergamo)
bertolini@marionegri.it
(www.giviti.marionegri.it)
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